domenica 7 dicembre 2008

NUOVO PRESIDENTE USA E SCENARI DI GUERRA PROSSIMI VENTURI


Che cosa cambierà con Barack Obama?

Di Manlio Dinucci





da DISARMIAMOLI.ORG
Una versione ridotta dell'articolo è stata pubblicata da Il Manifesto dell'11 novembre

«Appena sarò presidente, affronterò la crisi di petto prendendo tutte le misure necessarie per alleggerire la crisi del credito, aiutare le famiglie che lavorano duro, e restituire crescita e prosperità»: così, nella sua prima conferenza stampa, Barack Obama ha ribadito il concetto che, nella campagna elettorale, gli ha guadagnato il favore di «madri e padri che non riescono a dormire perché si chiedono se riusciranno a pagare il mutuo». Negli Stati uniti, ha detto nel discorso della vittoria, «non ci può essere una Wall Street che prospera mentre Main Street (l’uomo della strada) soffre».
Ma che cosa ha generato la crisi? Proprio il tentativo di far vivere «Main Street» al di sopra delle possibilità offerte dall’economia statunitense, incrementando i consumi delle famiglie mentre si riduceva il loro reddito reale. Ciò è stato fatto dando loro ampio accesso al credito. Le banche hanno concesso prestiti e mutui non solo a famiglie il cui reddito calava in assenza di aumenti salariali, ma perfino ai clienti ninjia (no income, no job and assets), ossia a persone sprovviste di reddito, lavoro e patrimonio. I mutui, soprattutto quelli subprime il cui rimborso era in forse, sono stati ceduti dalle banche a società terze, che hanno a loro volta emesso titoli il cui valore era garantito dal rimborso dei mutui. Questi titoli fasulli, inseriti tra quelli validi nelle cosiddette «salsicce finanziarie» garantite dalle agenzie di rating, sono stati venduti in tutto il mondo a investitori sia istituzionali che privati. L’esplosione di questa bolla speculativa ha portato alla crisi globale, alla cui origine vi è la pretesa degli Stati uniti, l’economia più indebitata del mondo, di vivere a credito facendo pagare il resto del mondo.
All’indebitamento delle famiglie, negli Usa, si aggiunge quello pubblico (10mila miliardi di dollari, oltre i due terzi del pil), alimentato da una spesa militare salita a oltre un quarto del bilancio federale. Per le guerre in Iraq e Afghanistan gli Usa hanno speso finora quasi 900 miliardi di dollari. «Missione compiuta», aveva annunciato trionfante il presidente Bush dopo aver invaso l’Iraq nel 2003, ma la resistenza irachena ha inceppato il meccanismo che avrebbe dovuto pompare nell’economia statunitense petrolio a basso costo, compensando il crescente indebitamento. Il debito complessivo statunitense ha così superato i 50mila miliardi di dollari. Per ridurre il debito, gli Usa dovrebbero ridimensionare drasticamente il livello dei loro consumi, a partire da quelli energetici (con una popolazione pari al 5% di quella mondiale, consumano il 25% del petrolio mondiale). Dovrebbero tagliare fortemente la spesa militare, rinunciando alla pretesa di dominare il mondo (alleati compresi) con la forza delle armi.
Ma è questa la via che il nuovo presidente intende seguire? Nel discorso della vittoria afferma che «la vera forza della nostra nazione proviene non dalla forza delle nostre armi, ma dai nostri ideali». Però subito dopo avverte: «Sconfiggeremo coloro che vogliono fare a pezzi il mondo». Annuncia quindi che gli Usa proseguiranno la «guerra globale al terrore». E quando ricorda «i coraggiosi americani che rischiano la loro vita per noi nei deserti dell’Iraq e sulle montagne dell’Afghanistan», indica che non intende rinunciare allo strumento della guerra per controllare zone di interesse strategico per gli Stati uniti. Quando afferma che «è a portata di mano una nuova alba della leadership americana», ribadisce il concetto di un ordine mondiale incentrato sulla leadership statunitense, all'interno del quale ogni paese deve avere un ruolo funzionale agli interessi statunitensi. Da qui la giustificazione dell'impiego delle forze armate statunitensi ovunque nel mondo sorgano fattori di instabilità, che possano mettere in pericolo la stabilità funzionale agli interessi e alla leadership globale degli Stati Uniti d'America.
Il «multilateralismo» che dovrebbe caratterizzare la politica estera dell’amministrazione Obama è stato già avviato da quella Bush. Essa ha invitato il Gruppo dei 20 (di cui fanno parte, oltre ai paesi del G7 e alla Russia, Cina, India, Arabia saudita, Messico e la Ue) a un vertice che si svolgerà il 15 novembre a Washington.














Obama non vi parteciperà, ma incontrerà singolarmente i leader dei paesi del G-20. Scopo principale è far sì che le petromonarchie arabe e la Cina, le cui esportazioni sono dirette in gran parte negli Usa e hanno quindi interesse a sostenerne l’economia, continuino ad acquistare titoli statunitensi. Allo stesso tempo l’amministrazione Bush ha cominciato a lavorare a un piano, che l’amministrazione Obama intende proseguire: diminuire la presenza militare Usa in Iraq, assicurandosi però il controllo del petrolio attraverso alleanze con gruppi di potere, e accrescerla in Afghanistan, coinvolgendo sempre più gli alleati. Così anche l’Italia sarà chiamata a contribuire al «nuovo sogno americano».

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