venerdì 17 dicembre 2010

Le scomode verità sull'utilità degli investimenti per la Difesa

da PeaceLink
del 9 luglio 2010

Il segretario della difesa degli Stati Uniti Robert Gates ha più volte dichiarato che dal 9/11 il bilancio del Pentagono è quasi raddoppiato senza contare il costo sostenuto per le guerre in Iraq e Afghanistan. Le spese generali da sole rappresentano circa il 40 per cento del bilancio del Dipartimento della Difesa. Bisogna tagliare da qualche parte se si vuole spendere sui programmi di ammodernamento.
"Per cominciare, dovremmo eliminare alcune delle più di 650 basi militari USA all'estero e riallineare altre", ridurre l'impatto ambientale delle strutture militari con un risparmio energetico a lungo termine, sostenere il piano del Dipartimento della Difesa che prevede la sotituzione degli appaltatori con dipendenti pubblici a tempo pieno.

L'Italia comincia a sentire la nuova ventata che arriva dal DoD ma non certo per la chiusura delle basi. Non poteva non saperlo. L'Italia sa bene quale sia l'impatto ambientale delle basi militari USA, sa bene cosa vuol dire tenersi le bombe nucleari sul proprio territorio, sa bene quali siano i fondamenti della strategia delle basi come presenza sul territorio, pressione politica, penetrazione economica e schieramento avanzato per le proiezioni di forza.

Lo sa ma si meraviglia quando si licenziano i lavoratori civili italiani impiegati nelle basi
http://www.stripes.com/news/europe/mediterranean/italian-workers-protest-job-cuts-on-bases-1.110279
(vedere anche articolo del Manifesto BASE USA DI AVIANO Italiani in sciopero: "Americani assunti al posto nostro"), lo sa e non si interroga sul significato del ricevimento da parte della base di Aviano del marchio di qualità Energy Star, marchio ottenuto grazie ai valori di risparmio energetico da parte dell'ospedale della base
USAF che ha fatto risparmiare agli USA 150.000 dollari, e che aumenterà con l'avvio di una costruzione di un impianto geotermico che consente di ricavare energie rinnovabili sfruttando la temperatura terrestre. http://www.aviano.af.mil/news/story.asp?id=123182692

L'Italia lo sa ma continua a tenersi le basi miliari per favorire una economia di guerra, dalla produzione di inutili nuovi caccia (JSF) all'appalto a imprese costruzione (la cui moralità è pari alla corruzione come nel caso della Maltauro di Vicenza) per l'ampliamento delle basi e degli stabilimenti di manutenzione, e dulcis in fundo
taglia gli incentivi per il diffondersi dell'energia rinnovabile.

Il 7 luglio 2010 presso Palazzo Montecitorio la Camera dei Deputati ha continuato la discussione sulle mozioni presentate da alcuni ministri a proposito delle risorse da destinare al settore della Difesa, contemporaneamente a Palazzo del Quirinale, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con il presidente del Consiglio dei ministri Silvio Belusconi e il capo di Stato Maggiore della Difesa generale Vincenzo Camporini, ha presieduto una riunione del Consiglio supremo di difesa.

Le mozioni, che si possono leggere nel sito della Camera http://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/odg/cam/allegati/20100707.htm , esprimono la necessità di razionalizzare la spesa pubblica destinata al settore della difesa in relazione alla crisi economica e finanziaria internazionale compresa quella italiana.
Considerando che il governo ha deciso il rifinanziamento delle missioni internazionali (l'anno scorso si è speso circa 600 milioni) che costerà circa 750 milioni di euro http://gazzette.comune.jesi.an.it/2010/156/1.htm , non si capisce ancora come Camera e Senato intenderanno adeguarsi a quanto il Consiglio supremo di difesa ha deliberato.
Il CSD ha considerato la possibilità di eliminare duplicazioni di spesa nel quadro delle prospettive del settore sicurezza e difesa dell'Unione Europea. http://www.corrispondenti.net/external_link.html?http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Comunicato&key=10460

Non si può non rilevare che mentre la nuova manovra finanziaria 2010 non fa nulla per incentivare uno sviluppo sostenibile (rivoluzione energetica), nulla per i redditi più bassi e nulla per i precari (figura dominante del mercato del lavoro), il governo italiano si mostra ancora una volta incapace di prendere decisioni importanti.
Diversamente in altri paesi europei la posizione è netta e precisa:

In Olanda il 20 maggio 2010 il parlamento ha votato la cancellazione dell'ordine per il primo F-35 Joint Strike Fighter e la cessazione della partecipazione olandese nel programma Initial Operational Test. Il leader laburista Job Cohen ha dichiarato che i fondi necessari per acquisire questi costosi caccia possono essere meglio utilizzati per altre questioni : http://ericpalmer.wordpress.com/2010/06/07/dutch-labour-leader-cohen-wait-with-f-35-jsf/

In Germania gli esperti del ministero della Difesa hanno redatto una lista che indica come risparmiare 9,5 miliardi di euro a lungo termine, rinunciando ad armi e a materiale bellico: http://it.reuters.com/article/topNews/idITMIE66604P20100707

Ravvisando l’incapacità del pensiero politico italiano di elaborare una cultura e una politica indipendente, viceversa D'Alema è stato lodato per questo da il Sole 24ore "il D'Alema odierno è lungimirante e capace di dire scomode verità sull'utilità degli investimenti per la Difesa http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-07-06/dalema-rompe-conformismo-080747.shtml?uuid=AYxRyR5B, si fa notare che lo stesso Generale James Mattis comandante del Joint Forces Command, ha dichiarato che la dipendenza dalla tecnologia è pericolosa manifestando così un contrasto con i guru della integrazione net-centrica, e che è ora di finirla con la leggenda per cui la ricerca militare sia finanziata dal complesso militare-industriale e abbia ricadute sul civile. Non corrisponde al vero: non c'è programma militare che non sia finanziato dallo Stato cioè con soldi pubblici, e la ricerca pubblica nel settore civile ha solo bisogno di essere finanziata.

Cosa accade con il JSF statunitense? Lo Stato italiano ha già finanziato con 1 miliardo le fasi di sviluppo a cui ha aderito, e l'US Government Accountability Office (GAO) è più che preoccupato per l'alto costo raggiunto da questo programma.

Ma entriamo nel merito della ricerca. Nel documento "Le sfide internazionali che hanno segnato la storia della robotica veicolare" si legge che "i ricercatori iniziarono a considerare lo sviluppo di veicoli terrestri senza conducente (o UGV, Unmanned Ground Vehicles) negli anni ’60, nonostante la tecnologia a quei tempi non fosse ancora matura; fu solo a metà degli anni ’80 che il settore militare sviluppò un UGV prototipo pensato per aiutare ad automatizzare la loro flotta terrestre. Alla fine degli anni ’80 iniziò l’interesse della ricerca nel settore civile, dopo che i governi di tutto il mondo ebbero lanciato i loro primi progetti. Alla fine degli anni ’90, dopo lo sviluppo ed i test su strada dei primi veicoli autonomi, si inserì anche l’industria automobilistica. In tutto il mondo i ministeri dei trasporti erano coinvolti
in obiettivi sociali, economici ed ambientali destinati a migliorare l’efficienza dei consumi di carburante e rete di comunicazione viaria oltre alla qualità della vita. Meno di 10 anni fa il successo degli ADAS nell’industria automobilistica indusse i militari a riconsiderare gli obiettivi di automazione della loro flotta terrestre".
http://erc.europa.eu/pdf/PressRelease_Vislab_AlbertoBroggiAAAS_%20IT-EN.pdf

Si fa notare che lo Stato italiano non solo continua a tagliare la Sanità pubblica (non la corruzione evidente in tutti i settori pubblici e privati) ma disincentiva qualsiasi progetto di industrializzazione derivante dalla ricerca civile. Fra le tante attività di ricerca che nulla hanno a che fare con il militare ma che tanto danno all'Italia, c'è un esempio che può valere per tutti.
Clarbruno Vedruccio Candidato al Nobel per la Medicina 2011 per aver inventato il Trimprob per la diagnosi dei tumori "solidi".
http://clarbrunonobel.blogspot.com/

mercoledì 22 settembre 2010

No Dal Molin: esperienza negativa e sconfitta da cui imparare


No Dal Molin : una esperienza negativa ed una sconfitta da cui imparare per le future mobilitazioni contro la militarizzazione dei territori e la guerra

Nell’articolo di Giulio Todescan sul numero di Carta del 3/9 settembre 2010, che illustra l’organizzazione del quarto anno del festival autogestito del presidio permanente No Dal Molin, ci sono due passaggi in rilievo che evidenziano i risultati ottenuti dalla mobilitazione di questi anni contro la costruzione della nuova base Usa a Vicenza: la realizzazione del Parco della Pace in un’area che il governo ha sdemanializzato a ‘mo di compensazione, e un ricco “capitale sociale” fatto di nuove relazioni tra singoli,associazioni,gruppi che preannuncia un certo fermento culturale in citta.

Poco, tanto, quello che era possibile? Si è fatto tutto quello che era necessario per impedire la costruzione della base?

Mentre i lavori nel cantiere della base procedono speditamente, Giulio Todescan nel suo articolo, fà intravedere posizioni critiche di parti del movimento contro il presidio permanente, e pone la questione di tutte le questioni: perché il movimento non è riuscito a fermare la base?

Una domanda che richiederebbe una lunga dissertazione e che probabilmente rimanda alla debolezza storica del movimento per la pace nel nostro paese, incapace di darsi gambe proprie, una strategia coerente di lotta alla guerra, e che si è sempre fatto piegare alle logiche manipolarizzatrici ed elettorali della “politica”.

Il ruolo del Pci e della sinistra, all’epoca della lotta contro l’installazione dei Cruise a Comiso, all’inizio degli anni ’80, è stato un ruolo di freno e di ostacolo allo sviluppo del movimento popolare. Una sinistra che tentennò a lungo – tre anni - nel sollecitare una risposta al governo italiano, che il 12 dicembre 1979 decise l’installazione dei missili Usa. Una sinistra che rifiutò caparbiamente la parola d’ordine dell’uscita delle basi USA-NATO dall’Italia e dell’Italia dalla NATO e che si autoproclamò testa pensante di un movimento per la pace vasto e composito, che però doveva corrispondere alla loro visione e ai loro interessi.

La “sinistra radicale” operante a cavallo del nuovo millennio ha partecipato alla mobilitazione contro la base di Vicenza, ma contemporaneamente era nel governo Prodi che ha sancito l’OK alle decisioni e alle scelte del governo USA e ha votato i finanziamenti per le missioni militari della guerra preventiva bushiana.

A Vicenza l’appoggio e i voti a Variati, diventato sindaco , si è rivelata un’operazione a perdere non difficile da prevedere. Errore? Sottovalutazione? Ripiegamento e arretramento localista?

Quello che è certo è che ad un certo punto la “direzione politica” del presidio permanente caratterizzata soprattutto dai centri sociali del nord-est, ha costantemente rifiutato ogni sollecitazione che veniva da realtà come quella del Patto permanente contro la guerra, di rilancio della mobilitazione a livello nazionale. Si è scelto la dimensione locale e i tavoli pseudo istituzionali nella logica dell’accettazione del meno peggio. Un errore grave. Ad un dato momento si è teorizzato coscientemente il ripiegamento locale, la dimensione circoscritta della comunità, il rifiuto di discutere modalità e forme di ripresa del conflitto nel nuovo contesto politico determinato a livello nazionale.

Molti pacifisti e attivisti hanno vissuto questa scelta come una imposizione incomprensibile, una volontà di allontanamento dal luogo simbolo della lotta contro la guerra. Insomma nella città del Palladio e del solipsismo municipalista, qualcuno si è reso cosciente che non bisogna disturbare il manovratore nella lotta contro la base, e qualcun altro si sta ancora chiedendo se è valsa la pena tornare e ritornare più volte a Vicenza per subire infine l’irrisione della concessione del “Parco della pace”vicino alla base di guerra. Quello che è troppo, è fuori di ogni misura.

Forse, in alternativa alla testimonianza antimilitarista e la realpolitik di Variati e co. indicate da Giulio Todescan nel suo articolo, c’era un’altra via, un’altra possibilità, cioè quella dell’apertura di una nuova fase di battaglia politica contro le scelte guerrafondaie del governo italiano capace di mettere in campo reali forze sociali dentro la crisi.

Qualcuno ha fatto notare come la lotta contro la costruzione della base militare ha goduto di un’ampia simpatia tra l’opinione pubblica italiana e che un governo nazionale è stato messo in crisi, così come la giunta comunale di Vicenza è stata mandata a casa. Segno di una forza reale del movimento No Dal Molin e delle mobilitazioni contro la guerra.

Rete Nazionale Disarmiamoli
www.disarmiamoli.org
3381028120 - 3384014989

sabato 18 settembre 2010

Dall'inizio della missione nel 2004 sono morti 30 militari italiani

Con la morte del tenente Alessandro Romani, ucciso oggi a Farah, sale il bilancio delle vittime. Gli ultimi due anni sono stati più cruenti: già 8 nel 2010 e nove l'anno precedente
DA: Repubblica.it


ROMA - Con la morte dell'incursore Alessandro Romani , ucciso questa mattina nella provincia di Farah, sale a trenta il numero dei militari italiani morti in Afghanistan dall'inizio della missione Isaf nel 2004. Di questi, la maggioranza è rimasta vittima di attentati e scontri a fuoco, altri invece sono morti in incidenti, alcuni per malore e uno si è suicidato. Gli ultimi due sono stati gli anni più cruenti per gli italiani: già otto le vittime in questo 2010, furono nove nel 2009.

Il 28 luglio 2 perdono la vita a una ventina chilometri da Herat, a seguito dell'esplosione di un ordigno rudimentale, il primo maresciallo Mauro Gigli e il caporal maggiore Pierdavide De Cillis.

Il 25 luglio 3 muore, forse suicida, un militare italiano. Si sarebbe sparato un colpo di arma da fuoco all'interno del suo ufficio, a Kabul. Sull'episodio indagano i carabinieri della polizia militare.

Il 23 giugno 4 muore a Shindand, nell'ovest dell'Afghanistan, il caporal maggiore scelto Francesco Saverio Positano. Ha perso l'equilibrio ed è caduto da un mezzo blindato, riportando un forte trauma cranico. Apparteneva al 32esimo reggimento genio, della brigata alpina taurinense.

Il 17 maggio 5 un veicolo blindato salta in aria per l'esplosione di un ordigno nella provincia di Herat. Muoiono il sergente Massimiliano Ramadù, 33 anni, e il caporal maggiore Luigi Pascazio, 25 anni. Le vittime appartenevano al 32esimo reggimento genio della brigata taurinense.

Il 26 febbraio 6 viene ucciso Pietro Antonio Colazzo, un funzionario della Aise, l'agenzia di informazione e sicurezza esterna, nel corso di un attentato suicida compiuto dai talebani a Kabul contro due 'guest house'.

Il 15 ottobre 2009 7 il caporal maggiore Rosario Ponziano del quarto reggimento alpini paracadutisti muore in un incidente stradale avvenuto sulla strada che collega Herat e Shindad.

Il 17 settembre 2009 8 sei militari muoiono in un attentato suicida a Kabul, rivendicato dai talebani. Le vittime, del 186esimo reggimento paracadutisti folgore di stanza nella capitale, sono il tenente Antonio Fortunato, il primo caporal maggiore Matteo Mureddu, il primo caporal maggiore Davide Ricchiuto, il primo caporal maggiore Massimiliano Randino, il sergente maggiore Roberto Valente e il primo caporal maggiore Gian Domenico Pistonami.

Il 14 luglio 2009 9 muore in un attentato a 50 chilometri da Farah il caporal maggiore Alessandro Di Lisio, 25 anni. Paracadutista dell'ottavo genio guastatori della Folgore, faceva parte di un team specializzato nella bonifica delle strade.

Il 15 gennaio 2009 muore per arresto cardiocircolatorio Arnaldo Forcucci, maresciallo dell'aeronautica.

Il 21 settembre 2008 muore per un malore a Herat il caporal maggiore Alessandro Caroppo, 23 anni, dell'ottavo reggimento bersaglieri di Caserta.

Il 13 febbraio 2008 10 muore in un attacco il maresciallo Giovanni Pezzulo, 44 anni, del Cimic Group South di Motta di Livenza. L'attentato avviene a una sessantina di chilometri da Kabul, nella valle di Uzeebin, mentre i militari italiani sono impegnati in attività di distribuzione di viveri e vestiario alla popolazione della zona. Rimane ferito il maresciallo Enrico Mercuri.

Il 24 novembre 2007 11 muore in un attentato suicida nei pressi di Kabul il maresciallo capo Daniele Paladini, 35 anni. Altri tre militari rimangono feriti.

Il 4 ottobre 2007 12 muore al Policlinico militare del Celio a Roma l'agente del Sismi Lorenzo D'Auria. Il militare era stato sequestrato il 22 settembre 2007 assieme a un altro sottufficiale del servizio di sicurezza e a un collaboratore afgano, ed era stato gravemente ferito due giorni dopo, durante un'operazione delle forze speciali 13 britanniche per cercare di liberarlo.

Il 26 settembre 2006 14 perdono la vita i caporal maggiori Giorgio Langella, 31 anni, e Vincenzo Cardella 15, in seguito all'esplosione di un ordigno lasciato lungo una strada nei pressi di Kabul. I due militari appartenevano alla 21esima compagnia del secondo reggimento alpini di Cuneo.

Il 20 settembre 2006 16 muore in un incidente stradale, a sud di Kabul, il caporal maggiore Giuseppe Orlando, 28 anni. Faceva parte della 22esima compagnia del secondo reggimento alpini di Cuneo.

Il 2 luglio 2006 17 il tenente colonnello Carlo Liguori, 41 anni, è stroncato da un attacco cardiaco a Herat.

Il 5 maggio 2006 18, in seguito all'esplosione di un ordigno lasciato lungo una strada nei pressi di Kabul, muoiono il tenente Manuel Fiorito, 27 anni, e il maresciallo Luca Polsinelli, 29 anni, entrambi del secondo reggimento alpini. I due soldati si trovavano a bordo di due veicoli blindati "puma", a sud-est della capitale afgana, quando sono stati investiti dall'esplosione.

L'11 ottobre 2005 19 muore il caporal maggiore Michele Sanfilippo, 34 anni. Sanfilippo, effettivo al quarto reggimento genio guastatori di Palermo, viene ferito con un colpo alla testa, partito accidentalmente, nella camerata del battaglione genio a Kabul. Muore poco dopo il ricovero in ospedale.

Il 3 febbraio 2005 20 l'ufficiale di marina Bruno Vianini perde la vita nello schianto di un aereo civile sul quale viaggiava, tra Herat e Kabul. Il capitano di fregata aveva 42 anni.

Il 3 ottobre 2004 il caporal maggiore Giovanni Bruno, 23 anni, del terzo reggimento alpini, è vittima di un incidente stradale mentre si trova a bordo di un mezzo dell'esercito nel territorio di Sorobi, a 70 chilometri da Kabul. Nell'incidente rimangono feriti altri quattro militari.

(17 settembre 2010)

Sangue italiano in Afghanistan

I talebani alzano il tiro, attentati e violenze alla vigilia del voto

DA: Corriere.com
Uno o più colpi di kalashnikov durante un blitz per catturare quattro “insorti” che, poco prima, avevano piazzato una bomba lungo una strada. È morto così, nella provincia di Farah, il tenente Alessandro Romani, 36 anni, romano, ufficiale del 9/o reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin della Folgore.


Un nuovo lutto che cade alla vigilia di una giornata considerata cruciale per via del voto per le elezioni legislative, e caratterizzata da una quantità di incidenti in tutto l’Afghanistan. Il tenente Romani - celibe, con molte missioni in prima linea alle spalle - è stato ucciso nel distretto di Bakwa, nella parte orientale della provincia ad altissimo rischio di Farah, ad un anno esatto dalla strage di Kabul, in cui vennero uccisi altri sei parà della Folgore. Tutto è cominciato quando un aereo senza pilota Predator dell’Aeronautica militare italiana ha avvistato quattro persone intente a posizionare una bomba sotto l’asfalto, lungo la strada che collega Farah a Delaram. Sempre il Predator ha poi seguito gli attentatori e ha segnalato il luogo dove questi si erano rifugiati. A questo punto è scattata l’operazione affidata alla Task force 45, composta dagli uomini delle Forze speciali italiane. Il team di incursori del 9/o Col Moschin della Folgore è partito da Farah a bordo di un elicottero Ch 47, scortato da due elicotteri d’attacco Mangusta. Dopo poco è atterrato nelle vicinanze della casa dove si erano nascosti gli insorti. Durante l’incursione, però, due dei commandos italiani sono stati centrati da un numero imprecisato di colpi di arma da fuoco. Li hanno soccorsi e portati via, all’ospedale militare da campo di Farah. Le loro condizioni, in un primo momento, non sono apparse gravi. Il tenente Romani è stato poi sottoposto ad un intervento chirurgico durante il quale, però, ci sono state complicazioni. La notizia della sua morte è arrivata inattesa al quartier generale italiano di Herat. L’altro ferito, un militare di truppa del Col Moschin, sembra sia ormai fuori pericolo. Sull’operazione non si conoscono, per il momento, altri particolari. Ignota pure la sorte dei talebani: quello che è certo è che i due elicotteri Mangusta hanno scaricato contro il loro rifugio l’enorme potenziale di fuoco di cui sono dotati. «Sono tornati scarichi», ha detto una fonte, e questo rende l’idea di che inferno possa essere stato.Una giornata, quella di ieri, caldissima ovunque. Scoppi di ordigni a Herat, rapimento di un candidato ad Adraskan, attentati a camion carichi di schede elettorali a Shindand. In questo caso è intervenuto uno dei team di «reazione rapida» italiani predisposti per garantire la sicurezza dell’atteso appuntamento elettorale.
I talebani, alla vigilia del voto per il rinnovo del parlamento, hanno compiuto numerosi attacchi contro le forze della coalizione e la polizia afghana.

mercoledì 15 settembre 2010

Italia: quinto esportatore di armi, contratti record col Sud del mondo


DI GIORGIO BERETTA (UNIMONDO.ORG)

L’Italia si è attestata anche nel 2009 tra i cinque maggiori fornitori internazionali di armamenti convenzionali e le sue esportazioni sono state dirette principalmente ai Paesi in via di sviluppo.

Lo si apprende dal rapporto “Conventional Arms Transfers to Developing Nations 2002-2009” redatto da Richard F. Grimmett che è stato consegnato venerdì scorso al Congresso degli Stati Uniti d'America. I contratti siglati dalle ditte italiane ammontano infatti nel 2009 – secondo il rapporto – a 2,7 miliardi di dollari, dei quali ben 2,4 miliardi (cioè quasi il 90%) sono stati stipulatii con nazioni in via di sviluppo: una cifra, quest’ultima, mai raggiunta negli ultimi otto anni che il rapporto prende in esame a dimostrazione del fatto che le esportazioni italiane di armamenti sono sempre più rivolte verso i paesi del Sud del mondo.

IL RAPPORTO

Il rapporto predisposto annualmente dal Congressional Research Service (CRS), l'ufficio studi della Library of Congress, la Biblioteca del Congresso, fornisce ai parlamentari degli Stati Uniti i “dati ufficiali e non secretati” sul commercio internazionale di armamenti convenzionali dedicando una specifica attenzione proprio ai trasferimenti ai Paesi in via di sviluppo (Developing Nations): sotto questa denominazione vengono compresi tutti i paesi del mondo tranne gli Stati Uniti, il Canada, tutte le nazioni europee (incluse Russia e Turchia), l’Australia, il Giappone e la Nuova Zelanda.

Il rapporto prende in considerazione tutte le categorie di armamenti convenzionali e tutti i trasferimenti di sistemi militari tra gli stati presentando in una quarantina di tabelle le cifre – riportate principalmente in dollari statunitensi costanti calcolati sull’ultimo anno, ma talvolta anche in valori correnti – sia dei “contratti” (agreements) sia delle “consegne” (deliveries) relativi alle esportazioni di armi. Proprio per queste caratteristiche i dati che vengono presentati nel rapporto si differenziano da quelli forniti da altri istituti di ricerca – come ad esempio il SIPRI di Stoccolma le cui informazioni si concentrano soprattutto sui trasferimenti dei “maggiori sistemi di armamento convenzionali” (“major conventional weapons”).

I MAGGIORI ACQUIRENTI DEL SUD DEL MONDO

Nonostante un certo decremento di ordinativi dovuto alla recessione internazionale “i Paesi in via di sviluppo continuano ad essere il principale destinatario delle esportazioni di armamenti da parte dei paesi produttori” – si legge nel sommario del rapporto. I contratti (agreements) stipulati nel 2009 dalle nazioni in via di sviluppo hanno superato i 45,1 miliardi di dollari (avevano raggiunto i 48,8 miliardi di dollari nel 2008) e rappresentano il 78,4% del commercio internazionale di armamenti che – sempre nel 2009 – si è posizionato sui 57,5 miliardi di dollari, in calo del 8,5% rispetto al 2008 quando aveva superato i 62,8 miliardi di dollari.

Più regolari invece le consegne (deliveries) mondiali di armamenti che nel 2009 si sono stazionate sui 35,1 miliardi di dollari: erano state di 36,7 miliardi nel 2008. Nel 2009 oltre 17 miliardi dollari (cioè il 48,5% del totale) di consegne di materiali militari sono state effettuate verso i Paesi in via di sviluppo: si tratta del valore più basso degli ultimi otto anni che è spiegabile – come afferma il rapporto – anche con la decisione di diverse nazioni di rimandare l’acquisto di armamenti a seguito delle restrizioni di budget messe in atto in considerazione della recessione economica internazionale.

Tra i maggiori acquirenti figurano per quanto riguarda i contratti stipulati nel 2009 innanzitutto il Brasile (7,2 miliardi di dollari), il Venezuela (6,4 miliardi), l'Arabia Saudita (4,3 miliardi), Taiwan (3,8 miliardi), Emirati Arabi Uniti (3,6 miliardi), Iraq (3,3 miliardi) e Egitto (3 miliardi) mentre per quanto riguarda le consegne effettive di armamenti nel 2009 (Tabella 24) i principali destinatari risultano l'Arabia Saudita (2,7 miliardi), la Cina (1,5 miliardi), Corea del Sud (1,4 miliardi), Egitto (1,3 miliardi), India (1,2 miliardi), Israele (1,2 miliardi) e Pakistan (1 miliardo).

I PRINCIPALI ESPORTATORI

Gli Stati Uniti mantengono il primato delle esportazioni mondiali di armamenti: nonostante la consistente riduzione di contratti rispetto al 2008 – anno in cui Washington aveva raggiunto la cifra record dell’ultimo decennio (38,1 miliardi di dollari) – con 22,6 miliardi di dollari gli Usa conservano anche nel 2009 la leadership mondiale in questo particolare settore ma vedono una forte contrazione della propria quota di mercato che si riduce al 39% rispetto al 60,5% del 2008. Un primato dal quale nei prossimi anni gli Stati Uniti difficilmente verranno scalzati se – come riporta il Wall Street Journal – l’amministrazione Obama intende far approvare dal Congresso l’accordo per forniture militari all'Arabia Saudita del valore di 60 miliardi di dollari che rappresenta il più consistente contratto di armamenti mai presentato.

La Russia permane al secondo posto nella graduatoria dei maggiori esportatori: i 10,4 miliardi di dollari di contratti effettuati nel 2009 rappresentano poco più del 18% dello share mondiale. Pur quasi raddoppiando rispetto al 2008 (5,5 miliardi di dollari) segnano però una contrazione sia rispetto al 2007 (quasi 11,2 miliardi) sia, soprattutto rispetto al 2006 quando erano giunti a sfiorare i 16 miliardi di dollari a seguito di accordi per forniture militari soprattutto a India e Cina.

La Cina, inoltre, con 1,7 miliardi di dollari di contratti e 1,8 miliardi di consegne dirette quasi esclusivamente ai Paesi in via di sviluppo mantiene - nonostante un'evidente diminuzione in entrambi i settori - la propria posizione tra i primi sette principali esportatori internazionali di armamenti.

I MAGGIORI FORNITORI EUROPEI

Tra i paesi che resistono al calo internazionale del commercio di armamenti e che anzi riescono ad incrementare le esportazioni nonostante la crisi economica mondiale vanno annoverati soprattutto i quattro principali produttori europei di sistemi militari: Francia, Germania, Italia e Regno Unito.

La Francia, con 7,4 miliardi di dollari di contratti nel 2009 raddoppia il proprio portafoglio d’ordini rispetto all’anno precedente (3,2 miliardi) e, segnando la seconda miglior performance degli ultimi otto anni, giunge a ricoprire quasi il 13% dell’esportazione mondiale di armamenti: il 96% dei contratti francesi del 2009, cioè 7,1 miliardi di dollari, sono stati siglati con i Paesi in via di sviluppo tra cui spiccano soprattutto quelli con nazioni dell’America latina.

Incrementa i propri contratti di sistemi di oltre il 16% tra il 2008 e il 2009 anche la Germania portandoli nell’ultimo anno a 3,7 miliardi di dollari che rappresentano la cifra record dell’ultimo quinquennio e ricoprono il 6,4% dello share internazionale. Ciò che differenzia la Germania rispetto agli altri tre paesi europei – e più generale agli altri maggiori produttori di armamenti – è la destinazione dei sistemi militari che nel 2009 solo per il 2,7% sono diretti ai Paesi in via di sviluppo; ma i 2,8 miliardi di dollari di consegne dell’ultimo anno vedono questi paesi destinatari per oltre il 37,5% degli armamenti tedeschi.

In calo – ma il dato va valutato con attenzione – risultano invece le esportazioni di armamenti dell’Italia: i contratti rilasciati dal nostro paese ammontano nel 2009 a 2,7 miliardi di dollari in netta flessione rispetto alla cifra record di quasi 3,8 miliardi di dollari del 2008. Ciononostante rappresentano la seconda miglior performance degli ultimi otto anni esaminati dal rapporti statunitense e, soprattutto, confermano un tendenziale trend di crescita rispetto ai 494 milioni di dollari del 2002. Si tratta di contratti che – come già detto – posizionano l’Italia al quinto posto tra i principali esportatori mondiali di armamenti davanti a Israele (2,1 miliardi di dollari), Cina (1,7 miliardi) e allo stesso Regno Unito (1,5 miliardi) portando l’Italia a rilevare una quota del 4,7% del commercio internazionale di sistemi militari.

Destinatari di questi contratti sono per quasi l’89% le nazioni in via di sviluppo: nel 2009 l’Italia ha infatti raggiunto con 2,4 miliardi di dollari la cifra record di contratti con questi paesi quasi quadruplicando (erano di 651 milioni di dollari nel 2006) negli ultimi quattro anni l’entità delle proprie commesse verso il Sud del mondo tanto da posizionare il nostro paese – dopo Stati Uniti, Russia e Francia – come il quarto fornitore mondiale dei Paesi in via di sviluppo con uno share del 5,3% sul totale di forniture a questi paesi.

Tra le zone del Sud del mondo, la quota maggiore di esportazioni di armi italiane nel quadriennio 2006-9 è ricoperta da una delle aree di maggior tensione del pianeta, il Medio Oriente: nel quadriennio con i paesi di questa zona l’Italia ha stipulato contratti per 3,7 miliardi di dollari cioè quasi i tre quarti (il 71%) di tutti i propri contratti internazionali.

Va infine segnalato che i dati del Rapporto al Congresso USA risultano comunque inferiori rispetto a quelli ufficiali presentati lo scorso marzo dalla Presidenza del Consiglio italiana: come abbiamo riportato su Unimondo, secondo la Relazione della Presidenza del Consiglio le autorizzazioni all'esportazione di armamenti rilasciate dal Governo nel 2009 alle aziende del settore ammontano a 4,9 miliardi di euro e nello stesso anno le effettive consegne di soli materiali di armamento hanno superato i 2,2 miliardi di euro. Sebbene tale disparità possa essere spiegata col fatto che le “autorizzazioni” governative italiane ricoprono un ambito più ampio dei “contratti” (agreements) presi in esame dal rapporto statunitense, anche le effettive consegne di materiali militari risultano alquanto sottodimensionate nel rapporto USA che segnala consegne italiane nel 2009 per soli 600 milioni di dollari a fronte dei 2,2 miliardi di euro riportati dalla Relazione governativa italiana.

Tornando all'ambito europeo, risultano in crescita anchei contratti del Regno Unito che – dopo aver toccato nel 2008 la cifra più bassa mai registrata – nel 2009 si attestano sui 1,5 miliardi di dollari. Le commesse stipulate dalle industrie britanniche risultano fortemente altalenanti: si passa infatti dai 988 milioni di dollari del 2002 agli oltre 10,3 miliardi di dollari del 2007 ai 205 milioni di dollari del 2008. Nel quadriennio 2006-9, con contratti per quasi 16,6 miliardi di dollari il Regno Unito si conferma comunque il quarto esportatore mondiale di armamenti convenzionali.

Se i quattro principali produttori europei di armamenti nel loro insieme mantengono pressoché invariata al 23% la propria percentuale sulle esportazioni militari mondiali nei due quadrienni esaminati dal rapporto, ciò che incrementa considerevolmente nell’ultimo biennio è invece l’ammontare di esportazioni verso i Paesi in via di sviluppo: si passa, infatti, dai meno di 7 miliardi di dollari del 2008 che ricoprivano il 14% del totale mondiale verso questi paesi agli oltre 10,6 miliardi di dollari del 2009 che rappresentano il 24% dello share internazionale. Un chiaro segnale che - come evidenzia il rapporto - “i quattro maggiori fornitori europei di armamenti hanno rafforzato la propria posizione competitiva nell’esportazione di sistemi militari attraverso un forte sostegno governativo (government marketing support) alle vendite di armamenti”. Un sostegno che - come si evince dal rapporto - ha contribuito a far sì che “i quattro maggiori fornitori europei di armamenti hanno stipulato contratti con vari Paesi in via di sviluppo sottraendoli agli Stati Uniti”.

giorgio.beretta@unimondo.org


ALTRI LINK
disarmo.org
archiviodisarmo.it

sabato 21 agosto 2010

Wikileaks svela: le truppe segrete inviate da Prodi


DA: Corriere.com
ROMA - Trattative riservate tra Roma e Washington e soldati inviati in Afghanistan “con discrezione”, per non urtare “la sensibilità politica” nazionale, cioè i faticosi rapporti tra il presidente del Consiglio e la parte sinistra della sua coalizione.
Le rivelazioni di Wikileaks sul governo Prodi-Bertinotti-Ferrero (2007)
Ecco alcune delle rivelazioni sull’Italia di Wikileaks che descrivono il “dietro le quinte” del governo Prodi nel 2007 quando il “professore” era costretto a sudare per districarsi tra l’esigenza di essere presente sulla scena internazionale, le pressanti richieste americane e l’avversione all’impegno militare dell’ala radicale della sua esigua maggioranza. Sono passati solo tre anni ma sembrano trenta dal punto di vista politico e i rapporti riservati diffusi da Wikileaks aprono uno squarcio sul lavoro diplomatico che si svolse tra le due sponde dell’Atlantico.
Così vengono confermati i rapporti non facili tra Romano Prodi e il presidente americano George W. Bush, nell’attesa di un incontro che, a un anno dall’elezione del leader democratico a Palazzo Chigi, era diventato “un problema politico”. E vengono confermate tutte le difficoltà di Prodi a fare fronte alle richieste di Washington per un aumento delle truppe italiane a Kabul.
Secondo un file classificato come “confidential” del 30 maggio 2007, l’Italia era sì disposta ad aumentare il proprio contributo militare, ma a patto che la questione “non sia trattata pubblicamente ma solo a un livello tecnico” data “la sensibilità politica nazionale” sulla missione Isaf. Gianni Bardini e Achille Amerio, i due diplomatici citati nel testo, spiegavano anche come “le leggi italiane rendono ardua la donazione di equipaggiamenti militari”, anche se il governo avrebbe, comunque, “trovato un modo” per inviare più soldati. Del resto, come rivelato dal documento, Roma “in maniera discreta”, stava già aumentando le proprie capacità militari in Afghanistan.
************************************************************


Su Wikileaks un documento riservato sull'Italia
Nel 2007 Roma invia più truppe ma chiede riservatezza
da: televideo
Più truppe italiane in Afghanistan? Va bene, ma con discrezione. Questo è il senso politico che si ricava da un documento americano classificato come 'confidential' del 30 maggio 2007 e pubblicato da Wikileaks.

Il 'file' riservato racconta un pezzo di storia recente italiana descrivendo le difficoltà dell'allora premier Romano Prodi - mai nominato direttamente nel dossier Usa - nel dover prendere una decisione difficile come l'aumento delle truppe in Afghanistan essendo alla guida di una coalizione condizionata dalle posizioni pacifiste dell'estrema sinistra di Fausto Bertinotti. Il ministro degli Esteri all'epoca era Massimo D'Alema.

Roma, secondo i documenti, si diceva pronta ad aumentare la sua capacità militare in Afghanistan, ma a patto che l'argomento non fosse trattato pubblicamente. La fonte dell'informativa, si legge nel file, è l'ambasciata americana a Roma.

Nel documento, dal titolo ''Italia pianifica altri contributi all'Isaf - Necessario lavorare con discrezione, ad un livello tecnico'', compaiono i nomi di Gianni Bardini, allora ministro plenipotenziario e responsabile per le problematiche di sicurezza e le questioni NATO della Direzione Generale Affari Politici Multilaterali e Diritti Umani, e di un altro diplomatico, Achille Amerio.
Nel testo i due spiegano che Roma, ''in maniera discreta'', sta già aumentando le proprie capacità militari in Afghanistan. ''Le leggi italiane rendono ardua la donazione di equipaggiamenti militari'' sottolinea Bardini, aggiungendo pero' che ''l'Italia avrebbe trovato un modo''. Inoltre, si legge, ''l'Italia potrebbe annunciare ulteriori contributi nel corso di un incontro tra i ministri della Difesa a Bruxelles''.
La condizione, tuttavia, come ''sottolineato'' dalle fonti italiane, e' che il dibattito sull'invio di militari italiani ''non sia trattato pubblicamente ma solo a un livello tecnico'' a causa ''della sensibilità politica nazionale'' sulla missione Isaf in Afghanistan

mercoledì 11 agosto 2010

A Pisa l’Hub della guerra


di Manlio Dinucci

L'aeroporto militare di Pisa diventerà l’Hub nazionale delle forze armate, ossia l’unica base aerea da cui transiteranno tutti i reparti inviati nelle diverse «missioni internazionali»: lo ha annunciato il portavoce della 46a Brigata aerea, maggiore Giorgio Mattia. I lavori inizieranno il prossimo maggio e, entro il 2013, l’Hub diventerà operativo. I lavori di ampliamento dello scalo prevedono una struttura ricettiva per circa 30mila uomini perfettamente equipaggiati, per un arco di tempo di almeno un mese. La struttura, ha precisato il portavoce, rispecchierà in tutto e per tutto i grandi hub civili con servizi di check in e check out, movimentazione bagagli e altri servizi di terra che potranno essere gestiti da ditte civili.

Con la differenza che vi transiteranno non turisti con T-shirt e canne da pesca, ma militari con tute mimetiche e fucili mitragliatori.
Il progetto viene presentato come un investimento importante che, rilanciando il ruolo strategico della base pisana, potrà avere importanti ricadute economiche sul territorio. «L’aeroporto militare nuova ricchezza per Pisa», titola Il Tirreno (3 agosto), prevedendo che l’Hub, in grado di movimentare fino a 30mila militari al mese, creerà un notevole indotto la cui capacità, inclusi i familiari al seguito, viene stimata in 50-60mila persone. Questo in una città che non raggiunge i 90mila residenti. Tale progetto, che stravolge la vocazione turistica del territorio puntando sul militare, viene imposto all’intera città senza che i suoi abitanti siano stati consultati. Sicuramente, invece, esso ha ricevuto l’entusiastico ok dell’amministrazione comunale, presieduta dal sindaco Marco Filippeschi (Pd).
E’ stato Filippeschi, lo scorso novembre, ad annunciare che la base Usa di Camp Darby, tra l’aeroporto di Pisa e il porto di Livorno, ha «importanti prospettive» e che «gli americani ritengono questo insediamento molto importante e vogliono continuare a investirci». Intanto vi investono la Regione Toscana e i comuni di Pisa e Livorno che, ampliando il Canale dei Navicelli, permettono alla base di velocizzare i collegamenti con il porto di Livorno e accrescere la sua capienza, così da rifornire più rapidamente le forze terrestri e aeree nell’area mediterranea, africana e mediorientale. Nello stesso quadro si inserisce il progetto dell’Hub di Pisa: il fatto che esso sarà in grado di movimentare fino a 30mila militari al mese, il triplo di quanti l’Italia ha dislocati all’estero, indica che la struttura potrà essere usata anche dalle forze armate statunitensi.
Si tace però sul fatto che l’impatto ambientale dell’aeroporto è già oggi ai limiti della sostenibilità. La 46a Brigata, dotata di aerei C-130J della Lockheed Martin che trasportano in continuazione truppe e materiali in Afghanistan e altri teatri, effettua oltre 10mila movimenti annui di velivoli militari, ai quali si aggiungono quelli effettuati per conto di Camp Darby, il cui numero è segreto. Nello stesso aeroporto, la cui gestione è militare, si svolgono oltre 40mila movimenti annui di velivoli civili. Sempre più spesso i C-130J e altri aerei sorvolano a bassa quota le zone abitate, incuranti dell’inquinamento che provocano e che le autorità di solito ignorano. Aumenta allo stesso tempo il pericolo di incidenti come quello verificatosi lo scorso novembre, quando un gigantesco C-130J, modificato in aereo cisterna per il rifornimento dei caccia in volo, è precipitato su una linea ferroviaria subito dopo il decollo, rischiando di provocare una strage. La realizzazione dell’Hub, una vera e propria città militare all’interno della città, che richiederà maggiore spazio e la probabile demolizione di edifici civili, accrescerà enormemente tale impatto.
Siamo quindi di fronte al progetto di militarizzazione di un territorio, che supera ampiamente quello del raddoppio della base di Vicenza, da cui potranno trarre vantaggio alcuni settori economici locali, ma non l’economia né tantomeno la cittadinanza nel suo complesso. Una «grande opera» militare, il cui enorme costo fagociterà altro denaro pubblico, mentre anche a Pisa si tagliano i fondi per l’università, la sanità e altri settori. Un altro investimento sulla «risorsa guerra», dietro il paravento delle «missioni umanitarie».

DAL "il manifesto", 4 agosto 2010
**********************************************************************************

lunedì 9 agosto 2010
Pisa sarà una grande portaerei
Per il sindaco (pd) «è un onore»
Annuncio choc: l'aeroporto sarà un hub per tutte le missioni militari

Francesco Ruggeri
L'aeroporto militare di Pisa diventerà un hub nazionale per le forze armate, «l'unico posto da dove si partirà per le missioni internazionali». Il portavoce della 46ma Brigata aerea (10mila voli l'anno in Afghanistan per conto dell'Italia e un numero segreto di servizi per conto di Camp Darby) ha spiegato che i lavori inizieranno in primavera per approntare entro il 2013 lo scalo su cui si concentreranno i voli militari e una struttura logistica capace di ospitare e equipaggiare, in meno di un mese, fino a 30mila uomini più eventuali familiari al seguito per altre 50-60mila persone. Vicenza, al confronto, è una bazzecola. Tutto ciò in una città di 90mila abitanti che solo nel 2004, proclamandosi "città della Pace, spergiurava - assieme all'allora governatore tocano, sulla necessità di riprendersi quel pezzo di macchia mediterranea occupato da Camp Darby in nome di una vocazione turistica dell'area e di un'ambizione pacifista delle politiche di governo del territorio.

«Invece, ci sarà una base militare strutturata per il ruolo offensivo delle truppe italiane all'interno di una politica estera pensata per avventure neo coloniali, per missioni internazionali, per una guerra permanente», spiegano i Cobas pisani che hanno fatto uscire la notizia dagli ambiti della stampa locale mentre, pochi chilometri più in là, proseguono i lavori di ampliamento del canale del Navicelli per dotare la base Usa- Nato dello sbocco al mare per Camp Darby richiesto dallo Zio Sam ai comuni di Pisa e Livorno e alla Regione.
Sembrano secoli quelli che ci separano da quando il consiglio comunale di Pisa votò la mozione per la riconversione di Camp Darby. L'ampliamento del Fosso dei Navicelli (a gestire l'area è la Spa Navicelli, pubblica al 100% con le quote azionarie equamente divise tra Comune, Provincia e Camera di Commercio) non è solo quello di aumentare la profondità del canale e creare una ampia zona per attività industriali ma pure il collegamento diretto via acqua di Camp Darby, la più grande base logistica degli Usa, con il porto di Livorno dove da anni una banchina è riservata già a Usa e Nato. «A rendere possibile il tutto ci sono finanziamenti di varia provenienza e la supervisione dei tecnici comunali - spiega a Liberazione, il portavoce locale dei Cobas, Federico Giusti - sarebbe il caso di chiedere coerenza ai consiglieri e ai partiti che sostennero quella mozione pacifista, sarebbe il caso che le sonnolenti realtà sociali e politiche pisane si attivassero contro la militarizzazione del territorio se non vogliamo che Pisa sia trasformata in zona di guerra. Se non ora quando?». Ma per Marco Filippeschi, il sindaco di Pisa per conto del Pd, all'epoca della mozione deputato diessino, la nascita dell'hub va messa fra le buone notizie: «Per Pisa non può che essere un onore accogliere le strutture che consentiranno all'aeroporto militare di essere il punto di riferimento, logistico e di volo, per le missioni di pace che le nostre forze armate saranno chiamate a svolgere. Senza sottovalutare anche le possibili ed interessanti ricadute occupazionali». Nel commentare la notizia, il sindaco ha voluto sottolineare come «la convivenza della base militare e dello scalo civile, segnate in questi anni dagli ottimi rapporti con il Comune di Pisa, sono garantite e producono effetti come è stato nel caso del progetto per l'allungamento delle piste». Inutile dire che la città non ne sapeva nulla e il consiglio comunale non ha mai discusso dell'hub. Solo nell'ultima seduta prima della pausa estiva s'è parlato delle ripercussioni negative dell'eventuale ampliamento dell'aeroporto di Firenze. Rifondazione comunista ha appreso dell'avanzata ipotesi di militarizzazione di S.Giusto solo dalla stampa. «E ci trova in totale disaccordo l'idea che, mentre si tagliano i servizi essenziali, si trovino soldi per la guerra, per la cementificazione e per l'inquinamento di un aeroporto tutto dentro la città», dice Luca Barbuti, segretario pisano di Rifondazione che fa appello al tessuto imprenditoriale e politico della città di non fare «come la cricca di fronte alle macerie aquilane: non ci si arricchisca sull'economia di guerra». C'è da scommettere che la città reagirà. Le risorse ci sono. Unico nel suo genere, l'ateneo pisano ospita un corso di laurea in Scienze per la pace. E, nel mese di maggio, quando il comune voleva mandare i bambini in gita nella scuola dei parà, c'è stata una fortissima mobilitazione dell'opinione pubblica - prima di tutti insegnanti e genitori - per trasformarla in un flop.

DA "Liberazione" 05/08/2010, pag 5

**********************************************************************************

Comunicato stampa da
Confederazione Cobas Pisa

Aeroporto militare  e Camp Darby:come ti militarizzo il territorio pisano
L'aeroporto militare di Pisa diventerà un Hub nazionale per le forze armate,"l'unico posto da dove si partirà per le missioni internazionali" . Lo dice alla stampa il portavoce della 46esima Brigata aerea che annuncia, per la primavera 2011, l'inizio dei lavori da terminare entro il 2013.  Ma chi pensa ad un potenziamento solo delle piste si sbaglia. Pisa diventerà una struttura
logistica di primaria grandezza in Europa, un centro militare nevralgico capace di ospitare e equipaggiare, in meno di un mese, fino a 30 mila uomini. Una base militare strutturata per il ruolo offensivo delle truppe italiane all'interno di una politica estera pensata per avventure neo coloniali, per missioni internazionali, per una guerra permanente. A pochi chilometri di distanza poi proseguono i lavori di ampliamento del canale del Navicelli per dotare la base
Usa\Nato di quello sbocco almare richiesto dagli Usa ai Comuni di Pisa e Livorno e alla Regione Toscana. Anni fa il Consiglio Comunale di Pisa votò una mozione per la riconversione di Camp darby, da mesi  sono ormai iniziati i lavori  di ampliamento del Fosso dei Navicelli (a gestire l'area è  la Spa Navicelli , spa pubblica al 100% con le quote azionarie equamente divise tra Comune di Pisa, Provincia di Pisa, Camera
di Commercio di Pisa). L'obiettivo non è solo aumentare la profondità del canale e creare una ampia zona per attività industriali, l'obiettivo rimane quello di allargare il Canale per consentire alla base Militare di Camp darby
il collegamento diretto via acqua con il porto di Livorno dove da anni una banchina è riservata alle attività militari Usa e Nato. A rendere possibile il tutto finanziamenti di varia provenienza e la supervisione dei tecnici comunali. Sarebbe il caso di chiedere coerenza ai consiglieri e ai partiti che sostennero quella mozione pacifista, sarebbe il caso che le sonnolenti realtà sociali e politiche pisane si attivassero contro il military business e la militarizzazione del territorio se non vogliamo che Pisa sia trasformata in zona di guerra. Se non ora quando?

Confederazione Cobas Pisa

lunedì 9 agosto 2010

Effetti Collaterali



Wikileaks rende pubblico un video in cui soldati Usa uccidono deliberatamente 12 civili in Iraq

WikiLeaks, un sito specializzato nella pubblicazione di documenti secretati, ha poche ore fa pubblicato un video segreto (che potete vedere nella home page di PeaceReporter) dell'esercito degli Stati Uniti d'America girato nel 2007 da un elicottero durante una operazione militare nella periferia di Baghdad. L'elicottero ha sparato e ucciso dodici civili tra cui due operatori della agenzia di stampa Reuters. Nell'azione ripresa dallo stesso elicottero, furono feriti due bambini. L'agenzia di stampa aveva provato ad ottenere il materiale video, ma inutilmente. Il video mostra chiaramente che gli operatori della Reuters sono stati uccisi dopo che erano già stati feriti. Nell'azione, anche due bambini erano stati feriti gravemente.
Per approfondimenti, www.collateralmurder.com.
da Peacereporter

Mentre due soldati italiani morivano in Afghanistan sulle spiagge di Gallipoli i reclutatori dell’Esercito erano all’opera tra i giovani disoccupati.

www.pugliantagonista.it




La cronaca sull’esplosione che ha provocato la morte dei due genieri ad Herat non è quella del solito attentato a blindati italiani , ma neanche quella di un semplice un incidente di lavoro che a specialisti in sminamento può anche capitare poiché le circostanze e i soggetti coinvolti fanno affermare ad alta voce che stiamo assistendo all’innalzamento delle qualità professionali degli artificieri talebani che anche noi dell’Osservatorio sui Balcani di Brindisi nelle pagine del nostro sito abbiamo più volte anticipato , definendo la guerra afgana come la prima guerra persa dalla NATO .

Tutto ciò lo confermano il reparto di elite di appartenenza delle vittime e che almeno una delle due vittime fosse un sottufficiale con a carico numerose operazioni di sminamento all’estero.

La circostanza che l’esplosione sia avvenuta dopo che avevano già disinnescato un altro ordigno fa pensare che la tecnica della posa delle mine, da parte dei talebani , oltre che esser cambiata nell’uso di materiali, diversificandosi tra recupero di mine residuati della guerra Russo-talebana, utilizzo di materiali chimici ad uso civile come il nitrato d’ammonio, l’uso di ordigni telecomandati o invece ad innesco convenzionale ( pressione, vibrazione, magnetici, miccia, ecc) , stia cambiando anche nella tecnica della posa, ovvero passando da quella di singoli ordigni, prevalentemente antitank ( quindi relativamente sicuri quando si maneggiano sul campo avendo bisogno di elevate pressioni per esplodere) , a quello “misto “, trappolato, ovvero il posare mine antitank protette a raggiera da mine antipersona o addirittura posate a bella posta affinché gli sminatori cadano in un campo minato trappolato.

Il fatto stesso che in quest’occasione siano incappati due esperti artificieri appartenenti ad una unità mobile composta da ben 36 elementi dotati di cercamine, cani, robot, ecc, fa pensare che il “rudimentale ordigno” sia invece una di quelle micidiali mine italiane o similari che proprio nei rapporti segreti svelati da Wikyleaks due giorni fa sono definite la bestia nera degli sminatori USA in Afghanistan, mine siglate TC/6 o simili, fatte in plastica e ceramica difficilissime da scoprire e capaci di rimanere efficienti quasi in eterno in uno scenario desertico come quello afgano.

Un tempo noi italiani eravamo all’avanguardia in questo settore, con una grande azienda la Tecnovar di Bari , nella nostra regione , la Puglia, che brevettò questi aggeggi micidiali che, anche dopo la messa al bando in Italia potè continuare la produzione all’estero e spedirne a decine o centinaia di migliaia proprio in Afghanistan coi soldi della CIA per combattere i russi.

Per riuscire a disinnescarle , occorre comprendere innanzitutto come si installano, il loro uso semplice o combinato con mine antitank , poi imparare a renderle innocue e … se sei diventato bravo puoi riconvertirle ad un nuovo uso.

L’esplosione di oggi dimostra una tecnica appresa presso una buona scuola di artificieri o anche ad una di sminatori e rispetto a queste ultime , ringraziando ALLAH, pardon l’ONU e la NATO ce ne sono tantissime sotto l’egida di ONG benemerite e famosissime che operano in Afghanistan da diversi anni e che hanno prodotto valenti specialisti tra gli afgani nel recupero mine…( su questo argomento vi invito a leggere il nostro articolo Quando i talebani andarono a scuola di mine dagli italiani

Il fatto che a cadere oggi siano stati dei valenti specialisti nel campo delle mine come i nostri artificieri, ritenuti in tutto il mondo all’avanguardia ( vedi l’ultima operazione di sminamento di UNIFIL sul confine israelo-libanese) apre scenari inquietanti quali l’aumento esponenziale dei prossimi costi logistici in Afganistan, ovvero utilizzo abnorme di mezzi e uomini per far operare in sicurezza , crescita di perdite in uomini e mezzi, diminuzione della flessibilità d’intervento.
Talebani pochi, sporchi e malvisti dai locali?

Per terminare facciamo notare che una cosa è posare in tutta fretta un ordigno improvvisato, nel cuore della notte , un altro gingillarsi nel posare mine trappolate o interi campi minati: ciò significa che i cosiddetti insorti hanno possibilità di operare all’aperto alla luce del giorno sotto gli occhi della popolazione , connivente o semplicemente passivamente accondiscendente.
Trappola con la complicità dei locali?

A questo punto altri terribili dubbi vengono andando a rileggere la cronache degli ultimi interventi dei nostri sminatori, chiamati ad intervenire su indicazioni di soldati afgani o civili e che alla luce dei fatti potrebbero essere interpretati non come segnali di fiducia nei confronti dei nostri soldati, bensì come occasioni per far studiare ad altri i nostri “modi operandi”

Il testamento spirituale dell’artificiere.


Fa pensare l’intervista fatta venti giorni fa al povero maresciallo Mauro Gigli, che candidamente dice all’operatore RAI di esser intervenuto su un ordigno-trappola che sembrava un antitank a pressione ed invece era radiocomandato. A rivederla quell’intervista è il testamento spirituale di ogni artificiere che inviato sul campo per un lavoro “di routine”, invece deve constatare che a salvarlo è stata la fortuna, la non raggiunta raffinatezza dell’avversario, una preveggenza extrasensoriale ma che d’ora in poi il bersaglio è proprio lui, in una sorta di cecchinaggio e controcecchinaggio

Se sono vere le ultime dichiarazioni del Ministro La Russa sul fatto che il maresciallo si sia accorto della trappola qualche istante prima di saltare in aria, avvisando gli altri della pattuglia , ebbene questo significa che ha compreso all’ultima istante che la partita tra specialisti , questa volta era stata vinta dall’avversario.
Il grande affare delle contromisure

Mine, trappole radiocomandate e altri congegni infernali son divenuti la causa principale dei caduti degli USA in Afghanistan a partire dal 2007 e il più grande esercito degli Stati Uniti ha speso per difendersi da essi circa la metà della spesa totale di tutte le apparecchiature elettroniche , con aumenti di investimenti per esempio per quanto riguarda il disturbatori di radiocomandi più in uso in Afghanistan , lo Warlock "IED jammer , del 400% nel 2007 rispetto ai livelli del 2003. ( dati Wikyleaks) Di questi disturbatori ce ne sono ben 2769 schierati, oltre ad altri 1734 del modello Acorn, centinaia i rivelatori portatili di esplosivi, decine di veicoli Husky e Mercaat per individuazione mine, centinaia di robot della serie Pacbot e Marcbot IV e vari oltre che decine di aerei robot che sono in volo 24 ore su 24 che hanno il compito di individuare i posatori di mine. Nonostante ciò e una spesa che raggiunge i miliardi di dollari, le vittime statunitensi continuano ad essere elevate e la possibilità di competere con quei costi stratosferici per gli italiani è impossibile.





Arruolati anche tu nelle truppe imperiali!


In compenso abbiamo materiale umano da reclutare a poco prezzo e nel giorno in cui saltava in aria un pugliese come il caporalmaggiore De Cillis di Bisceglie, nella sua regione d’origine , nel Salento , tra i villeggianti della città di Gallipoli, nella cornice del parco di giochi acquatico “Acqua Splash” interveniva l’Info Team dell’esercito italiano , composto da personale del comando militare Esercito “Puglia” e del centro documentale di Lecce che in pantaloncini blu, maglietta verde e cappellino beige con logo istituzionale , facevano conoscere ai giovani pugliesi disoccupati le opportunità professionali e formative offerte dalla Forza Armata, con la possibilità di viaggiare tanto all’estero e conoscere dei posti meravigliosi irraggiungibili da turisti squattrinati e sprovveduti come sono loro...

Altri Infoteam si son visti sulle spiaggie del NordBarese e a detta dell’esercito continueranno la loro opera di reclutamento per tutto il mese di agosto tra ombrelloni, pizzichi, mellonate e giochi acquatici....

Antonio Camuso

Osservatorio sui Balcani di Brindisi

Brindisi 29 luglio 2010

martedì 13 aprile 2010

17 APRILE A PIAZZA NAVONA PER EMERGENCY


SABATO 17 APRILE TUTTI A PIAZZA NAVONA PER EMERGENCY, CONTRO LA CONGIURA DI GUERRA ORCHESTRATA DALLA NATO E DAL GOVERNO KARZAI IN AFGHANISTAN CON LA COMPLICITA’ DEL GOVERNO ITALIANO.

L’attacco pianificato contro Emergency è un palese tentativo delle potenze occidentali occupanti di screditare, rendere inoffensivo, impedire di operare ad un testimone diretto dei massacri e delle stragi generati dalla guerra condotta dalla coalizione bellica a guida USA contro gli afgani.


Il blitz , l’arresto dei medici e degli operatori con accuse assurde, e l’occupazione della struttura ospedaliera a Lashkar Gah avviene a due mesi dall’inizio dell’operazione “Moshtarak” – la più grande dall’invasione del 2001. Un’offensiva militare condotta da 15.000 militari Isaf insieme a forze dell’esercito del governo afgano, a Marjah nel sud dell’Afghanistan. Fin dai primi giorni dell’azione di guerra trapelano notizie di profughi fuggiti dai bombardamenti e di morti tra i civili.

Emergency denuncia il ruolo delle truppe statunitensi che impediscono alla Croce Rossa l’evacuazione e il soccorso dei civili feriti a Marjah attraverso il corridoio umanitario, e parlano di crimini di guerra riferendosi al recente premio Nobel per la pace Obama.

All’improvviso e a sorpresa alla fine di marzo il presidente degli Stati Uniti arriva a Kabul per ascoltare dal generale McChrystal un “rapporto sul campo” sull’andamento del conflitto e per ringraziare le truppe per il lavoro svolto, sicuro- afferma Obama – di chiudere con successo la missione militare.

Quindici giorni dopo c’è l’attacco ad Emergency. Sicuramente una coincidenza.

Il ministro degli Esteri Frattini e quello alla Difesa – o meglio alla guerra – la Russa, tacciono come sempre, e Gino Strada rincara la dose - giustamente – chiamando delinquenti politici i parlamentari italiani che votano il rifinanziamento della missione militare e che non vedono la strage di civili in corso.
GLI STESSI POLITICI CHE DA TRE ANNI LASCIANO 90 PROFUGHI AFGANI NELLE "BUCHE" DELLA PERIFERIA ROMANA, SENZA QUELLA ASSISTENZA MINIMA DOVUTA LORO IN BASE AL DIRITTO UMANITARIO INTERNAZIONALE. Nessuna pietà nè soldi per chi è fortunosamente scampato dalle bombe e dagli eserciti della NATO.

Quello che è certo è che gli orrori della guerra – che la Nato e gli Usa non potranno mai vincere militarmente – non vanno nè visti nè raccontati. Invece è proprio questo che bisogna continuare a fare per inceppare la macchina bellica, le sue bugie, le mistificazioni e i suoi silenzi omertosi.

VIA DALL’AFGHANISTAN, RITIRO DELLE TRUPPE, SOLIDARIETA'ED ASSISTENZA AI PROFUGHI DI GUERRA.

Rete nazionale Disarmiamoli

info@disarmiamoli.org; www.disarmiamoli.org

Gino Strada: 'Emergency colpita perché testimone scomodo

lunedì 12 aprile 2010

Afghanistan, fermati a Lashkargah tre operatori italiani di Emergency


Sono accusati di coinvolgimento in un complotto per uccidere il governatore dell'Helmand. Emergency: " Accusa ridicola"



Tre operatori italiani dell'ospedale di Emergency a Lashkargah, nella provincia meridionale di Helmand, sono stati fermati dalle forze di sicurezza afgane e dalle truppe britanniche Isaf (entrate armate nell'ospedale: VIDEO) con l'accusa di coinvolgimento in un complotto per organizzare attentati suicidi e per assassinare il governatore locale, Gulab Mangal.
I tre italiani sono Marco Garatti, coordinatore medico del progetto di Emergency in Afghanistan, Matteo Dell'Aira, infermiere capo dell'ospedale di Lashkargah, e Matteo Pagani, logista dello stesso ospedale.
Assieme a loro sono stati fermati altri sei dipendenti afgani dell'ospedale.
Secondo Daud Ahmadi, portavoce del governatore di Helmand, le forze di sicurezza che hanno fatto irruzione nell'ospedale di Emergency hanno trovato nel magazzino dell'ospedale giubbotti esplosivi, granate e armi da fuoco.
Non si sa dove i nove fermati siano detenuti. La sede milanese dell'ong non e' ancora riuscita a parlare con loro.

La reazione di Emergency. "Quando abbiamo provato a chiamare il telefono di uno dei nostri operatori - ha dichiarato Maso Notarianni, responsabile comunicazione di Emergency - ha risposto un uomo che si e' qualificato come appartenente alle 'forze britanniche Isaf', ci ha assicurato che gli italiani erano con lui e stavano bene, ma non ce li ha passati".
"L'accusa di un qualsiasi complotto o del favoreggiamento di qualsiasi azione violenta è assolutamente ridicola", ha detto Notarianni. "Chiunque, qualsiasi afghano medio, ridirebbe del fatto che qualunque membro dello staff di Emergency possa complottare alcunché. Dal ministro Frattini ci aspettiamo che faccia immediatamente rilasciare i nostri medici e che esiga che la situazione torni alla normalità. L'ospedale di Lashkargah opera in una situazione difficile nella provincia di Helmand è in corso da settimane un'operazione militare che ha colpito molti civili, che spesso non potevano ricevere alcun soccorso".
La Farnesina, dal canto suo, "ribadisce la linea di assoluto rigore del governo italiano contro qualsiasi attività di sostegno diretto o indiretto al terrorismo in Afghanistan, così come altrove" e che "i medici italiani in stato di fermo lavoravano in una struttura umanitaria non riconducibile ne' direttamente ne' indirettamente alle attività finanziate dalla cooperazione italiana".


La parole di Gino Strada. Per Gino Strada, fondatore di Emergency, "Le accuse mi sembrano delle assurdità talmente grosse da non prenderle in considerazione. Mi auguro che nessuna anima bella le prenda in considerazione: e' come se in Italia si facesse circolare la voce che Don Ciotti sta complottando per uccidere il papa, e mi scuso con il mio amico per questo esempio. È vero - continua Strada - che il progetto che Emergency sta portando avanti in Afghanistan non è finanziato dalla cooperazione, ma ha ricevuto la 'conformità' del ministero degli Esteri, termine tecnico per dire che la Farnesina riconosce quel progetto e lo avalla, quindi non è vero che si possono tirare fuori". Sulle armi rinvenute nell'ospedale, Strada ha detto: "Non posso escluderlo, come non posso escludere che qualcuno possa entrare con una pistola in qualunque ospedale italiano".
"Emergency in Afghanistan, e soprattutto in quella regione, è un testimone scomodo di quanto fanno le forze di occupazione e una specie di governo ai danni della popolazione", continua Strada. "Siamo scomodi perché' abbiamo denunciato che veniva addirittura impedito di assistere i civili feriti nella recente campagna di attacchi dove bambini e donne sono stati colpiti duramente. Sono in molti in questa zona a partecipare all'occupazione militare, fra cui gli italiani".

Enrico Piovesana
peacereporter

STRATEGIE NUCLEARI USA/NATO IN UNA ITALIA "ATOMICA"

La nuova roadmap nucleare americana
La strategia del Nuclear Posture Review 2010

Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci

La roadmap della nuova strategia nucleare Usa è dunque tracciata: lo annuncia nella prefazione al Nu-clear Posture Review Report 2010 il segretario alla Difesa Robert Gates, anche lui rinnovatosi passan-do dall’amministrazione Bush a quella Obama. Che cosa è cambiato? Anzitutto la situazione interna-zionale: «L’Unione sovietica e il Patto di Varsavia sono scomparsi e tutti gli ex membri non-sovietici del Patto di Varsavia sono ora membri della Nato». La Russia «non è un nemico», ma un partner degli Stati uniti nell’affrontare «altre minacce emergenti». Il presidente Obama ha infatti chiarito che «il più immediato ed estremo pericolo è oggi il terrorismo nucleare».

Qui niente di nuovo rispetto alla strategia dell’amministrazione Bush, che al comunismo (nemico numero uno nella guerra fredda) aveva sostituito il terrorismo, «il nemico oscuro che si nasconde negli angoli bui della Terra». Oggi, si afferma nel rapporto del Pentagono, «Al Qaeda e i loro alleati estre-misti cercano di procurarsi armi nucleari». Quindi, «anche se la minaccia di una guerra nucleare globa-le è divenuta remota, è aumentato il rischio di attacco nucleare». Si agita così lo spettro di un 11 set-tembre nucleare, collegato all’«altra pressante minaccia»: la proliferazione nucleare. Altri paesi, so-prattutto quelli «in contrasto con gli Stati uniti», possono dotarsi di armi nucleari. Si accusa quindi l’Iran, e in subordine la Corea del nord, di perseguire ambizioni nucleari, violando il Trattato di non-proliferazione (Tnp), accrescendo l’instabilità della propria regione e spingendo i paesi limitrofi a prendere in considerazione «proprie opzioni di deterrenza nucleare» (espressione diplomatica per giu-stificare, senza nominarlo, il fatto che Israele possiede armi nucleari e non aderisce al Tnp).

Su questo sfondo sono chiari gli obiettivi della nuova strategia: anzitutto mantenere la supremazia nucleare statunitense, stabilendo con il nuovo Start (firmato l’8 aprile a Praga) uno status quo con la Russia, l’altra maggiore potenza nucleare. Il trattato non limita il numero delle testate nucleari operati-ve nei due arsenali, ma solo le «testate nucleari dispiegate», ossia pronte al lancio su vettori strategici con gittata superiore ai 5.500 km: il tetto viene stabilito in 1.550 per parte, ma è in realtà superiore poiché ciascun bombardiere pesante viene contato come una singola testata anche se ne trasporta venti o più. Siamo ben lungi dal disarmo nucleare. Ciascuna delle due parti non solo manterrà pronto al lancio un numero di testate nucleari in grado di spazzare via la specie umana dalla faccia della Terra, ma potrà continuare a potenziare qualitativamente le proprie forze nucleari.

Nel Nuclear Posture Review si precisa che gli Stati uniti, pur non sviluppando nuovi tipi di testate nucleari, rinnoveranno il proprio arsenale attraverso sostituzioni di componenti. Sarà quindi «rafforza-ta la base scientifica e tecnologica, vitale per la gestione dell’arsenale». A tal fine sono previsti «accre-sciuti investimenti nel complesso degli impianti e del personale addetti alle armi nucleari». Lo stesso, ovviamente, potrà fare la Russia, pur disponendo di minori mezzi economici. Gli Usa cercheranno pe-rò di acquisire un ulteriore vantaggio, sviluppando nuovi tipi di vettori strategici (non limitati dal nuo-vo Start) e realizzando in Europa lo «scudo» anti-missili (restato fuori dell’accordo): un sistema che, una volta messo a punto, permetterebbe loro di neutralizzare almeno in parte la capacità delle forze nucleari strategiche russe. Riguardo alla Cina, gli Usa si dichiarano «preoccupati per i suoi sforzi di modernizzazione militare, compresa quella qualitativa e quantitativa dell’arsenale nucleare».

Allo stesso tempo gli Stati uniti, con il summit del 12 aprile sul Tnp, si prefiggono di rafforzare il re-gime di «non-proliferazione» così come è concepito a Washington: mantenere immutato l’attuale «club nucleare» di cui sono membri, oltre alle due maggiori potenze, Francia, Gran Bretagna, Cina, I-sraele (in incognito), India e Pakistan. Gli Stati uniti, mentre si impegnano a non usare armi nucleari contro gli stati che non le posseggono e si attengono al Tnp, lasciano intendere che si riservano il dirit-to del first strike per impedire che un paese come l’Iran possa costruirle. Ben diverso l’atteggiamento verso gli alleati. Nel Nuclear Posture Review si conferma che «rimane in Europa un piccolo numero di armi nucleari Usa» (stimato in circa 500, di cui 90 in Italia), precisando che «i membri non-nucleari della Nato partecipano alla pianificazione nucleare e posseggono aerei specificamente configurati, ca-paci di trasportare armi nucleari». Si ammette così, in un documento ufficiale, che i primi a violare il Tnp sono gli Stati uniti, i quali forniscono armi nucleari a paesi non-nucleari, e i loro alleati, Italia compresa, i quali violano l’art. 2 del Tnp: «Ciascuno degli stati militarmente non-nucleari si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente».

L’Italia è atomica
Il Pentagono conferma che Italia dispone
di bombe nucleari. Cosa dice il governo italiano?

Già si sapeva – da un rapporto dell’associazione ambientalista americana Natural Resources Defense Council (v. il manifesto, 10 febbraio 2005) – che gli Stati uniti mantengono in Italia 90 bombe nuclea-ri: 50 ad Aviano (Pordenone) e 40 a Ghedi Torre (Brescia). Altre circa 400 sono dislocate in Germa-nia, Gran Bretagna, Turchia, Belgio e Olanda. Sono bombe tattiche B-61 in tre versioni, la cui potenza va da 45 a 170 kiloton (13 volte maggiore di quella della bomba di Hiroshima).
Le bombe sono tenute in speciali hangar insieme ai caccia pronti per l’attacco nucleare: tra questi, i Tornado italiani che sono armati con 40 bombe nucleari (quelle tenute a Ghedi Torre). A tal fine, rive-la il rapporto, piloti italiani vengono addestrati all’uso delle bombe nucleari nei poligoni di Capo Fra-sca (Oristano) e Maniago II (Pordenone).
Ora ciò viene confermato ufficialmente, per la prima volta, nel Nuclear Posture Review 2010, dove si afferma che «i membri non-nucleari della Nato posseggono aerei specificamente configurati, capaci di trasportare armi nucleari». Lo conferma anche il governo italiano, ammettendo così di violare il Trat-tato di non-proliferazione? Oppure dichiara che il Pentagono dice il falso?

(il manifesto, 9 aprile 2010)

martedì 6 aprile 2010

militarismo U.S.A.

I segni onnipresenti del militarismo, incluse pubblicità sulla metro per l'F-35, con bandiera italiana, e la DRS del gruppo Finmeccanica.