sabato 18 settembre 2010

Dall'inizio della missione nel 2004 sono morti 30 militari italiani

Con la morte del tenente Alessandro Romani, ucciso oggi a Farah, sale il bilancio delle vittime. Gli ultimi due anni sono stati più cruenti: già 8 nel 2010 e nove l'anno precedente
DA: Repubblica.it


ROMA - Con la morte dell'incursore Alessandro Romani , ucciso questa mattina nella provincia di Farah, sale a trenta il numero dei militari italiani morti in Afghanistan dall'inizio della missione Isaf nel 2004. Di questi, la maggioranza è rimasta vittima di attentati e scontri a fuoco, altri invece sono morti in incidenti, alcuni per malore e uno si è suicidato. Gli ultimi due sono stati gli anni più cruenti per gli italiani: già otto le vittime in questo 2010, furono nove nel 2009.

Il 28 luglio 2 perdono la vita a una ventina chilometri da Herat, a seguito dell'esplosione di un ordigno rudimentale, il primo maresciallo Mauro Gigli e il caporal maggiore Pierdavide De Cillis.

Il 25 luglio 3 muore, forse suicida, un militare italiano. Si sarebbe sparato un colpo di arma da fuoco all'interno del suo ufficio, a Kabul. Sull'episodio indagano i carabinieri della polizia militare.

Il 23 giugno 4 muore a Shindand, nell'ovest dell'Afghanistan, il caporal maggiore scelto Francesco Saverio Positano. Ha perso l'equilibrio ed è caduto da un mezzo blindato, riportando un forte trauma cranico. Apparteneva al 32esimo reggimento genio, della brigata alpina taurinense.

Il 17 maggio 5 un veicolo blindato salta in aria per l'esplosione di un ordigno nella provincia di Herat. Muoiono il sergente Massimiliano Ramadù, 33 anni, e il caporal maggiore Luigi Pascazio, 25 anni. Le vittime appartenevano al 32esimo reggimento genio della brigata taurinense.

Il 26 febbraio 6 viene ucciso Pietro Antonio Colazzo, un funzionario della Aise, l'agenzia di informazione e sicurezza esterna, nel corso di un attentato suicida compiuto dai talebani a Kabul contro due 'guest house'.

Il 15 ottobre 2009 7 il caporal maggiore Rosario Ponziano del quarto reggimento alpini paracadutisti muore in un incidente stradale avvenuto sulla strada che collega Herat e Shindad.

Il 17 settembre 2009 8 sei militari muoiono in un attentato suicida a Kabul, rivendicato dai talebani. Le vittime, del 186esimo reggimento paracadutisti folgore di stanza nella capitale, sono il tenente Antonio Fortunato, il primo caporal maggiore Matteo Mureddu, il primo caporal maggiore Davide Ricchiuto, il primo caporal maggiore Massimiliano Randino, il sergente maggiore Roberto Valente e il primo caporal maggiore Gian Domenico Pistonami.

Il 14 luglio 2009 9 muore in un attentato a 50 chilometri da Farah il caporal maggiore Alessandro Di Lisio, 25 anni. Paracadutista dell'ottavo genio guastatori della Folgore, faceva parte di un team specializzato nella bonifica delle strade.

Il 15 gennaio 2009 muore per arresto cardiocircolatorio Arnaldo Forcucci, maresciallo dell'aeronautica.

Il 21 settembre 2008 muore per un malore a Herat il caporal maggiore Alessandro Caroppo, 23 anni, dell'ottavo reggimento bersaglieri di Caserta.

Il 13 febbraio 2008 10 muore in un attacco il maresciallo Giovanni Pezzulo, 44 anni, del Cimic Group South di Motta di Livenza. L'attentato avviene a una sessantina di chilometri da Kabul, nella valle di Uzeebin, mentre i militari italiani sono impegnati in attività di distribuzione di viveri e vestiario alla popolazione della zona. Rimane ferito il maresciallo Enrico Mercuri.

Il 24 novembre 2007 11 muore in un attentato suicida nei pressi di Kabul il maresciallo capo Daniele Paladini, 35 anni. Altri tre militari rimangono feriti.

Il 4 ottobre 2007 12 muore al Policlinico militare del Celio a Roma l'agente del Sismi Lorenzo D'Auria. Il militare era stato sequestrato il 22 settembre 2007 assieme a un altro sottufficiale del servizio di sicurezza e a un collaboratore afgano, ed era stato gravemente ferito due giorni dopo, durante un'operazione delle forze speciali 13 britanniche per cercare di liberarlo.

Il 26 settembre 2006 14 perdono la vita i caporal maggiori Giorgio Langella, 31 anni, e Vincenzo Cardella 15, in seguito all'esplosione di un ordigno lasciato lungo una strada nei pressi di Kabul. I due militari appartenevano alla 21esima compagnia del secondo reggimento alpini di Cuneo.

Il 20 settembre 2006 16 muore in un incidente stradale, a sud di Kabul, il caporal maggiore Giuseppe Orlando, 28 anni. Faceva parte della 22esima compagnia del secondo reggimento alpini di Cuneo.

Il 2 luglio 2006 17 il tenente colonnello Carlo Liguori, 41 anni, è stroncato da un attacco cardiaco a Herat.

Il 5 maggio 2006 18, in seguito all'esplosione di un ordigno lasciato lungo una strada nei pressi di Kabul, muoiono il tenente Manuel Fiorito, 27 anni, e il maresciallo Luca Polsinelli, 29 anni, entrambi del secondo reggimento alpini. I due soldati si trovavano a bordo di due veicoli blindati "puma", a sud-est della capitale afgana, quando sono stati investiti dall'esplosione.

L'11 ottobre 2005 19 muore il caporal maggiore Michele Sanfilippo, 34 anni. Sanfilippo, effettivo al quarto reggimento genio guastatori di Palermo, viene ferito con un colpo alla testa, partito accidentalmente, nella camerata del battaglione genio a Kabul. Muore poco dopo il ricovero in ospedale.

Il 3 febbraio 2005 20 l'ufficiale di marina Bruno Vianini perde la vita nello schianto di un aereo civile sul quale viaggiava, tra Herat e Kabul. Il capitano di fregata aveva 42 anni.

Il 3 ottobre 2004 il caporal maggiore Giovanni Bruno, 23 anni, del terzo reggimento alpini, è vittima di un incidente stradale mentre si trova a bordo di un mezzo dell'esercito nel territorio di Sorobi, a 70 chilometri da Kabul. Nell'incidente rimangono feriti altri quattro militari.

(17 settembre 2010)

Sangue italiano in Afghanistan

I talebani alzano il tiro, attentati e violenze alla vigilia del voto

DA: Corriere.com
Uno o più colpi di kalashnikov durante un blitz per catturare quattro “insorti” che, poco prima, avevano piazzato una bomba lungo una strada. È morto così, nella provincia di Farah, il tenente Alessandro Romani, 36 anni, romano, ufficiale del 9/o reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin della Folgore.


Un nuovo lutto che cade alla vigilia di una giornata considerata cruciale per via del voto per le elezioni legislative, e caratterizzata da una quantità di incidenti in tutto l’Afghanistan. Il tenente Romani - celibe, con molte missioni in prima linea alle spalle - è stato ucciso nel distretto di Bakwa, nella parte orientale della provincia ad altissimo rischio di Farah, ad un anno esatto dalla strage di Kabul, in cui vennero uccisi altri sei parà della Folgore. Tutto è cominciato quando un aereo senza pilota Predator dell’Aeronautica militare italiana ha avvistato quattro persone intente a posizionare una bomba sotto l’asfalto, lungo la strada che collega Farah a Delaram. Sempre il Predator ha poi seguito gli attentatori e ha segnalato il luogo dove questi si erano rifugiati. A questo punto è scattata l’operazione affidata alla Task force 45, composta dagli uomini delle Forze speciali italiane. Il team di incursori del 9/o Col Moschin della Folgore è partito da Farah a bordo di un elicottero Ch 47, scortato da due elicotteri d’attacco Mangusta. Dopo poco è atterrato nelle vicinanze della casa dove si erano nascosti gli insorti. Durante l’incursione, però, due dei commandos italiani sono stati centrati da un numero imprecisato di colpi di arma da fuoco. Li hanno soccorsi e portati via, all’ospedale militare da campo di Farah. Le loro condizioni, in un primo momento, non sono apparse gravi. Il tenente Romani è stato poi sottoposto ad un intervento chirurgico durante il quale, però, ci sono state complicazioni. La notizia della sua morte è arrivata inattesa al quartier generale italiano di Herat. L’altro ferito, un militare di truppa del Col Moschin, sembra sia ormai fuori pericolo. Sull’operazione non si conoscono, per il momento, altri particolari. Ignota pure la sorte dei talebani: quello che è certo è che i due elicotteri Mangusta hanno scaricato contro il loro rifugio l’enorme potenziale di fuoco di cui sono dotati. «Sono tornati scarichi», ha detto una fonte, e questo rende l’idea di che inferno possa essere stato.Una giornata, quella di ieri, caldissima ovunque. Scoppi di ordigni a Herat, rapimento di un candidato ad Adraskan, attentati a camion carichi di schede elettorali a Shindand. In questo caso è intervenuto uno dei team di «reazione rapida» italiani predisposti per garantire la sicurezza dell’atteso appuntamento elettorale.
I talebani, alla vigilia del voto per il rinnovo del parlamento, hanno compiuto numerosi attacchi contro le forze della coalizione e la polizia afghana.

mercoledì 15 settembre 2010

Italia: quinto esportatore di armi, contratti record col Sud del mondo


DI GIORGIO BERETTA (UNIMONDO.ORG)

L’Italia si è attestata anche nel 2009 tra i cinque maggiori fornitori internazionali di armamenti convenzionali e le sue esportazioni sono state dirette principalmente ai Paesi in via di sviluppo.

Lo si apprende dal rapporto “Conventional Arms Transfers to Developing Nations 2002-2009” redatto da Richard F. Grimmett che è stato consegnato venerdì scorso al Congresso degli Stati Uniti d'America. I contratti siglati dalle ditte italiane ammontano infatti nel 2009 – secondo il rapporto – a 2,7 miliardi di dollari, dei quali ben 2,4 miliardi (cioè quasi il 90%) sono stati stipulatii con nazioni in via di sviluppo: una cifra, quest’ultima, mai raggiunta negli ultimi otto anni che il rapporto prende in esame a dimostrazione del fatto che le esportazioni italiane di armamenti sono sempre più rivolte verso i paesi del Sud del mondo.

IL RAPPORTO

Il rapporto predisposto annualmente dal Congressional Research Service (CRS), l'ufficio studi della Library of Congress, la Biblioteca del Congresso, fornisce ai parlamentari degli Stati Uniti i “dati ufficiali e non secretati” sul commercio internazionale di armamenti convenzionali dedicando una specifica attenzione proprio ai trasferimenti ai Paesi in via di sviluppo (Developing Nations): sotto questa denominazione vengono compresi tutti i paesi del mondo tranne gli Stati Uniti, il Canada, tutte le nazioni europee (incluse Russia e Turchia), l’Australia, il Giappone e la Nuova Zelanda.

Il rapporto prende in considerazione tutte le categorie di armamenti convenzionali e tutti i trasferimenti di sistemi militari tra gli stati presentando in una quarantina di tabelle le cifre – riportate principalmente in dollari statunitensi costanti calcolati sull’ultimo anno, ma talvolta anche in valori correnti – sia dei “contratti” (agreements) sia delle “consegne” (deliveries) relativi alle esportazioni di armi. Proprio per queste caratteristiche i dati che vengono presentati nel rapporto si differenziano da quelli forniti da altri istituti di ricerca – come ad esempio il SIPRI di Stoccolma le cui informazioni si concentrano soprattutto sui trasferimenti dei “maggiori sistemi di armamento convenzionali” (“major conventional weapons”).

I MAGGIORI ACQUIRENTI DEL SUD DEL MONDO

Nonostante un certo decremento di ordinativi dovuto alla recessione internazionale “i Paesi in via di sviluppo continuano ad essere il principale destinatario delle esportazioni di armamenti da parte dei paesi produttori” – si legge nel sommario del rapporto. I contratti (agreements) stipulati nel 2009 dalle nazioni in via di sviluppo hanno superato i 45,1 miliardi di dollari (avevano raggiunto i 48,8 miliardi di dollari nel 2008) e rappresentano il 78,4% del commercio internazionale di armamenti che – sempre nel 2009 – si è posizionato sui 57,5 miliardi di dollari, in calo del 8,5% rispetto al 2008 quando aveva superato i 62,8 miliardi di dollari.

Più regolari invece le consegne (deliveries) mondiali di armamenti che nel 2009 si sono stazionate sui 35,1 miliardi di dollari: erano state di 36,7 miliardi nel 2008. Nel 2009 oltre 17 miliardi dollari (cioè il 48,5% del totale) di consegne di materiali militari sono state effettuate verso i Paesi in via di sviluppo: si tratta del valore più basso degli ultimi otto anni che è spiegabile – come afferma il rapporto – anche con la decisione di diverse nazioni di rimandare l’acquisto di armamenti a seguito delle restrizioni di budget messe in atto in considerazione della recessione economica internazionale.

Tra i maggiori acquirenti figurano per quanto riguarda i contratti stipulati nel 2009 innanzitutto il Brasile (7,2 miliardi di dollari), il Venezuela (6,4 miliardi), l'Arabia Saudita (4,3 miliardi), Taiwan (3,8 miliardi), Emirati Arabi Uniti (3,6 miliardi), Iraq (3,3 miliardi) e Egitto (3 miliardi) mentre per quanto riguarda le consegne effettive di armamenti nel 2009 (Tabella 24) i principali destinatari risultano l'Arabia Saudita (2,7 miliardi), la Cina (1,5 miliardi), Corea del Sud (1,4 miliardi), Egitto (1,3 miliardi), India (1,2 miliardi), Israele (1,2 miliardi) e Pakistan (1 miliardo).

I PRINCIPALI ESPORTATORI

Gli Stati Uniti mantengono il primato delle esportazioni mondiali di armamenti: nonostante la consistente riduzione di contratti rispetto al 2008 – anno in cui Washington aveva raggiunto la cifra record dell’ultimo decennio (38,1 miliardi di dollari) – con 22,6 miliardi di dollari gli Usa conservano anche nel 2009 la leadership mondiale in questo particolare settore ma vedono una forte contrazione della propria quota di mercato che si riduce al 39% rispetto al 60,5% del 2008. Un primato dal quale nei prossimi anni gli Stati Uniti difficilmente verranno scalzati se – come riporta il Wall Street Journal – l’amministrazione Obama intende far approvare dal Congresso l’accordo per forniture militari all'Arabia Saudita del valore di 60 miliardi di dollari che rappresenta il più consistente contratto di armamenti mai presentato.

La Russia permane al secondo posto nella graduatoria dei maggiori esportatori: i 10,4 miliardi di dollari di contratti effettuati nel 2009 rappresentano poco più del 18% dello share mondiale. Pur quasi raddoppiando rispetto al 2008 (5,5 miliardi di dollari) segnano però una contrazione sia rispetto al 2007 (quasi 11,2 miliardi) sia, soprattutto rispetto al 2006 quando erano giunti a sfiorare i 16 miliardi di dollari a seguito di accordi per forniture militari soprattutto a India e Cina.

La Cina, inoltre, con 1,7 miliardi di dollari di contratti e 1,8 miliardi di consegne dirette quasi esclusivamente ai Paesi in via di sviluppo mantiene - nonostante un'evidente diminuzione in entrambi i settori - la propria posizione tra i primi sette principali esportatori internazionali di armamenti.

I MAGGIORI FORNITORI EUROPEI

Tra i paesi che resistono al calo internazionale del commercio di armamenti e che anzi riescono ad incrementare le esportazioni nonostante la crisi economica mondiale vanno annoverati soprattutto i quattro principali produttori europei di sistemi militari: Francia, Germania, Italia e Regno Unito.

La Francia, con 7,4 miliardi di dollari di contratti nel 2009 raddoppia il proprio portafoglio d’ordini rispetto all’anno precedente (3,2 miliardi) e, segnando la seconda miglior performance degli ultimi otto anni, giunge a ricoprire quasi il 13% dell’esportazione mondiale di armamenti: il 96% dei contratti francesi del 2009, cioè 7,1 miliardi di dollari, sono stati siglati con i Paesi in via di sviluppo tra cui spiccano soprattutto quelli con nazioni dell’America latina.

Incrementa i propri contratti di sistemi di oltre il 16% tra il 2008 e il 2009 anche la Germania portandoli nell’ultimo anno a 3,7 miliardi di dollari che rappresentano la cifra record dell’ultimo quinquennio e ricoprono il 6,4% dello share internazionale. Ciò che differenzia la Germania rispetto agli altri tre paesi europei – e più generale agli altri maggiori produttori di armamenti – è la destinazione dei sistemi militari che nel 2009 solo per il 2,7% sono diretti ai Paesi in via di sviluppo; ma i 2,8 miliardi di dollari di consegne dell’ultimo anno vedono questi paesi destinatari per oltre il 37,5% degli armamenti tedeschi.

In calo – ma il dato va valutato con attenzione – risultano invece le esportazioni di armamenti dell’Italia: i contratti rilasciati dal nostro paese ammontano nel 2009 a 2,7 miliardi di dollari in netta flessione rispetto alla cifra record di quasi 3,8 miliardi di dollari del 2008. Ciononostante rappresentano la seconda miglior performance degli ultimi otto anni esaminati dal rapporti statunitense e, soprattutto, confermano un tendenziale trend di crescita rispetto ai 494 milioni di dollari del 2002. Si tratta di contratti che – come già detto – posizionano l’Italia al quinto posto tra i principali esportatori mondiali di armamenti davanti a Israele (2,1 miliardi di dollari), Cina (1,7 miliardi) e allo stesso Regno Unito (1,5 miliardi) portando l’Italia a rilevare una quota del 4,7% del commercio internazionale di sistemi militari.

Destinatari di questi contratti sono per quasi l’89% le nazioni in via di sviluppo: nel 2009 l’Italia ha infatti raggiunto con 2,4 miliardi di dollari la cifra record di contratti con questi paesi quasi quadruplicando (erano di 651 milioni di dollari nel 2006) negli ultimi quattro anni l’entità delle proprie commesse verso il Sud del mondo tanto da posizionare il nostro paese – dopo Stati Uniti, Russia e Francia – come il quarto fornitore mondiale dei Paesi in via di sviluppo con uno share del 5,3% sul totale di forniture a questi paesi.

Tra le zone del Sud del mondo, la quota maggiore di esportazioni di armi italiane nel quadriennio 2006-9 è ricoperta da una delle aree di maggior tensione del pianeta, il Medio Oriente: nel quadriennio con i paesi di questa zona l’Italia ha stipulato contratti per 3,7 miliardi di dollari cioè quasi i tre quarti (il 71%) di tutti i propri contratti internazionali.

Va infine segnalato che i dati del Rapporto al Congresso USA risultano comunque inferiori rispetto a quelli ufficiali presentati lo scorso marzo dalla Presidenza del Consiglio italiana: come abbiamo riportato su Unimondo, secondo la Relazione della Presidenza del Consiglio le autorizzazioni all'esportazione di armamenti rilasciate dal Governo nel 2009 alle aziende del settore ammontano a 4,9 miliardi di euro e nello stesso anno le effettive consegne di soli materiali di armamento hanno superato i 2,2 miliardi di euro. Sebbene tale disparità possa essere spiegata col fatto che le “autorizzazioni” governative italiane ricoprono un ambito più ampio dei “contratti” (agreements) presi in esame dal rapporto statunitense, anche le effettive consegne di materiali militari risultano alquanto sottodimensionate nel rapporto USA che segnala consegne italiane nel 2009 per soli 600 milioni di dollari a fronte dei 2,2 miliardi di euro riportati dalla Relazione governativa italiana.

Tornando all'ambito europeo, risultano in crescita anchei contratti del Regno Unito che – dopo aver toccato nel 2008 la cifra più bassa mai registrata – nel 2009 si attestano sui 1,5 miliardi di dollari. Le commesse stipulate dalle industrie britanniche risultano fortemente altalenanti: si passa infatti dai 988 milioni di dollari del 2002 agli oltre 10,3 miliardi di dollari del 2007 ai 205 milioni di dollari del 2008. Nel quadriennio 2006-9, con contratti per quasi 16,6 miliardi di dollari il Regno Unito si conferma comunque il quarto esportatore mondiale di armamenti convenzionali.

Se i quattro principali produttori europei di armamenti nel loro insieme mantengono pressoché invariata al 23% la propria percentuale sulle esportazioni militari mondiali nei due quadrienni esaminati dal rapporto, ciò che incrementa considerevolmente nell’ultimo biennio è invece l’ammontare di esportazioni verso i Paesi in via di sviluppo: si passa, infatti, dai meno di 7 miliardi di dollari del 2008 che ricoprivano il 14% del totale mondiale verso questi paesi agli oltre 10,6 miliardi di dollari del 2009 che rappresentano il 24% dello share internazionale. Un chiaro segnale che - come evidenzia il rapporto - “i quattro maggiori fornitori europei di armamenti hanno rafforzato la propria posizione competitiva nell’esportazione di sistemi militari attraverso un forte sostegno governativo (government marketing support) alle vendite di armamenti”. Un sostegno che - come si evince dal rapporto - ha contribuito a far sì che “i quattro maggiori fornitori europei di armamenti hanno stipulato contratti con vari Paesi in via di sviluppo sottraendoli agli Stati Uniti”.

giorgio.beretta@unimondo.org


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sabato 21 agosto 2010

Wikileaks svela: le truppe segrete inviate da Prodi


DA: Corriere.com
ROMA - Trattative riservate tra Roma e Washington e soldati inviati in Afghanistan “con discrezione”, per non urtare “la sensibilità politica” nazionale, cioè i faticosi rapporti tra il presidente del Consiglio e la parte sinistra della sua coalizione.
Le rivelazioni di Wikileaks sul governo Prodi-Bertinotti-Ferrero (2007)
Ecco alcune delle rivelazioni sull’Italia di Wikileaks che descrivono il “dietro le quinte” del governo Prodi nel 2007 quando il “professore” era costretto a sudare per districarsi tra l’esigenza di essere presente sulla scena internazionale, le pressanti richieste americane e l’avversione all’impegno militare dell’ala radicale della sua esigua maggioranza. Sono passati solo tre anni ma sembrano trenta dal punto di vista politico e i rapporti riservati diffusi da Wikileaks aprono uno squarcio sul lavoro diplomatico che si svolse tra le due sponde dell’Atlantico.
Così vengono confermati i rapporti non facili tra Romano Prodi e il presidente americano George W. Bush, nell’attesa di un incontro che, a un anno dall’elezione del leader democratico a Palazzo Chigi, era diventato “un problema politico”. E vengono confermate tutte le difficoltà di Prodi a fare fronte alle richieste di Washington per un aumento delle truppe italiane a Kabul.
Secondo un file classificato come “confidential” del 30 maggio 2007, l’Italia era sì disposta ad aumentare il proprio contributo militare, ma a patto che la questione “non sia trattata pubblicamente ma solo a un livello tecnico” data “la sensibilità politica nazionale” sulla missione Isaf. Gianni Bardini e Achille Amerio, i due diplomatici citati nel testo, spiegavano anche come “le leggi italiane rendono ardua la donazione di equipaggiamenti militari”, anche se il governo avrebbe, comunque, “trovato un modo” per inviare più soldati. Del resto, come rivelato dal documento, Roma “in maniera discreta”, stava già aumentando le proprie capacità militari in Afghanistan.
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Su Wikileaks un documento riservato sull'Italia
Nel 2007 Roma invia più truppe ma chiede riservatezza
da: televideo
Più truppe italiane in Afghanistan? Va bene, ma con discrezione. Questo è il senso politico che si ricava da un documento americano classificato come 'confidential' del 30 maggio 2007 e pubblicato da Wikileaks.

Il 'file' riservato racconta un pezzo di storia recente italiana descrivendo le difficoltà dell'allora premier Romano Prodi - mai nominato direttamente nel dossier Usa - nel dover prendere una decisione difficile come l'aumento delle truppe in Afghanistan essendo alla guida di una coalizione condizionata dalle posizioni pacifiste dell'estrema sinistra di Fausto Bertinotti. Il ministro degli Esteri all'epoca era Massimo D'Alema.

Roma, secondo i documenti, si diceva pronta ad aumentare la sua capacità militare in Afghanistan, ma a patto che l'argomento non fosse trattato pubblicamente. La fonte dell'informativa, si legge nel file, è l'ambasciata americana a Roma.

Nel documento, dal titolo ''Italia pianifica altri contributi all'Isaf - Necessario lavorare con discrezione, ad un livello tecnico'', compaiono i nomi di Gianni Bardini, allora ministro plenipotenziario e responsabile per le problematiche di sicurezza e le questioni NATO della Direzione Generale Affari Politici Multilaterali e Diritti Umani, e di un altro diplomatico, Achille Amerio.
Nel testo i due spiegano che Roma, ''in maniera discreta'', sta già aumentando le proprie capacità militari in Afghanistan. ''Le leggi italiane rendono ardua la donazione di equipaggiamenti militari'' sottolinea Bardini, aggiungendo pero' che ''l'Italia avrebbe trovato un modo''. Inoltre, si legge, ''l'Italia potrebbe annunciare ulteriori contributi nel corso di un incontro tra i ministri della Difesa a Bruxelles''.
La condizione, tuttavia, come ''sottolineato'' dalle fonti italiane, e' che il dibattito sull'invio di militari italiani ''non sia trattato pubblicamente ma solo a un livello tecnico'' a causa ''della sensibilità politica nazionale'' sulla missione Isaf in Afghanistan

mercoledì 11 agosto 2010

A Pisa l’Hub della guerra


di Manlio Dinucci

L'aeroporto militare di Pisa diventerà l’Hub nazionale delle forze armate, ossia l’unica base aerea da cui transiteranno tutti i reparti inviati nelle diverse «missioni internazionali»: lo ha annunciato il portavoce della 46a Brigata aerea, maggiore Giorgio Mattia. I lavori inizieranno il prossimo maggio e, entro il 2013, l’Hub diventerà operativo. I lavori di ampliamento dello scalo prevedono una struttura ricettiva per circa 30mila uomini perfettamente equipaggiati, per un arco di tempo di almeno un mese. La struttura, ha precisato il portavoce, rispecchierà in tutto e per tutto i grandi hub civili con servizi di check in e check out, movimentazione bagagli e altri servizi di terra che potranno essere gestiti da ditte civili.

Con la differenza che vi transiteranno non turisti con T-shirt e canne da pesca, ma militari con tute mimetiche e fucili mitragliatori.
Il progetto viene presentato come un investimento importante che, rilanciando il ruolo strategico della base pisana, potrà avere importanti ricadute economiche sul territorio. «L’aeroporto militare nuova ricchezza per Pisa», titola Il Tirreno (3 agosto), prevedendo che l’Hub, in grado di movimentare fino a 30mila militari al mese, creerà un notevole indotto la cui capacità, inclusi i familiari al seguito, viene stimata in 50-60mila persone. Questo in una città che non raggiunge i 90mila residenti. Tale progetto, che stravolge la vocazione turistica del territorio puntando sul militare, viene imposto all’intera città senza che i suoi abitanti siano stati consultati. Sicuramente, invece, esso ha ricevuto l’entusiastico ok dell’amministrazione comunale, presieduta dal sindaco Marco Filippeschi (Pd).
E’ stato Filippeschi, lo scorso novembre, ad annunciare che la base Usa di Camp Darby, tra l’aeroporto di Pisa e il porto di Livorno, ha «importanti prospettive» e che «gli americani ritengono questo insediamento molto importante e vogliono continuare a investirci». Intanto vi investono la Regione Toscana e i comuni di Pisa e Livorno che, ampliando il Canale dei Navicelli, permettono alla base di velocizzare i collegamenti con il porto di Livorno e accrescere la sua capienza, così da rifornire più rapidamente le forze terrestri e aeree nell’area mediterranea, africana e mediorientale. Nello stesso quadro si inserisce il progetto dell’Hub di Pisa: il fatto che esso sarà in grado di movimentare fino a 30mila militari al mese, il triplo di quanti l’Italia ha dislocati all’estero, indica che la struttura potrà essere usata anche dalle forze armate statunitensi.
Si tace però sul fatto che l’impatto ambientale dell’aeroporto è già oggi ai limiti della sostenibilità. La 46a Brigata, dotata di aerei C-130J della Lockheed Martin che trasportano in continuazione truppe e materiali in Afghanistan e altri teatri, effettua oltre 10mila movimenti annui di velivoli militari, ai quali si aggiungono quelli effettuati per conto di Camp Darby, il cui numero è segreto. Nello stesso aeroporto, la cui gestione è militare, si svolgono oltre 40mila movimenti annui di velivoli civili. Sempre più spesso i C-130J e altri aerei sorvolano a bassa quota le zone abitate, incuranti dell’inquinamento che provocano e che le autorità di solito ignorano. Aumenta allo stesso tempo il pericolo di incidenti come quello verificatosi lo scorso novembre, quando un gigantesco C-130J, modificato in aereo cisterna per il rifornimento dei caccia in volo, è precipitato su una linea ferroviaria subito dopo il decollo, rischiando di provocare una strage. La realizzazione dell’Hub, una vera e propria città militare all’interno della città, che richiederà maggiore spazio e la probabile demolizione di edifici civili, accrescerà enormemente tale impatto.
Siamo quindi di fronte al progetto di militarizzazione di un territorio, che supera ampiamente quello del raddoppio della base di Vicenza, da cui potranno trarre vantaggio alcuni settori economici locali, ma non l’economia né tantomeno la cittadinanza nel suo complesso. Una «grande opera» militare, il cui enorme costo fagociterà altro denaro pubblico, mentre anche a Pisa si tagliano i fondi per l’università, la sanità e altri settori. Un altro investimento sulla «risorsa guerra», dietro il paravento delle «missioni umanitarie».

DAL "il manifesto", 4 agosto 2010
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lunedì 9 agosto 2010
Pisa sarà una grande portaerei
Per il sindaco (pd) «è un onore»
Annuncio choc: l'aeroporto sarà un hub per tutte le missioni militari

Francesco Ruggeri
L'aeroporto militare di Pisa diventerà un hub nazionale per le forze armate, «l'unico posto da dove si partirà per le missioni internazionali». Il portavoce della 46ma Brigata aerea (10mila voli l'anno in Afghanistan per conto dell'Italia e un numero segreto di servizi per conto di Camp Darby) ha spiegato che i lavori inizieranno in primavera per approntare entro il 2013 lo scalo su cui si concentreranno i voli militari e una struttura logistica capace di ospitare e equipaggiare, in meno di un mese, fino a 30mila uomini più eventuali familiari al seguito per altre 50-60mila persone. Vicenza, al confronto, è una bazzecola. Tutto ciò in una città di 90mila abitanti che solo nel 2004, proclamandosi "città della Pace, spergiurava - assieme all'allora governatore tocano, sulla necessità di riprendersi quel pezzo di macchia mediterranea occupato da Camp Darby in nome di una vocazione turistica dell'area e di un'ambizione pacifista delle politiche di governo del territorio.

«Invece, ci sarà una base militare strutturata per il ruolo offensivo delle truppe italiane all'interno di una politica estera pensata per avventure neo coloniali, per missioni internazionali, per una guerra permanente», spiegano i Cobas pisani che hanno fatto uscire la notizia dagli ambiti della stampa locale mentre, pochi chilometri più in là, proseguono i lavori di ampliamento del canale del Navicelli per dotare la base Usa- Nato dello sbocco al mare per Camp Darby richiesto dallo Zio Sam ai comuni di Pisa e Livorno e alla Regione.
Sembrano secoli quelli che ci separano da quando il consiglio comunale di Pisa votò la mozione per la riconversione di Camp Darby. L'ampliamento del Fosso dei Navicelli (a gestire l'area è la Spa Navicelli, pubblica al 100% con le quote azionarie equamente divise tra Comune, Provincia e Camera di Commercio) non è solo quello di aumentare la profondità del canale e creare una ampia zona per attività industriali ma pure il collegamento diretto via acqua di Camp Darby, la più grande base logistica degli Usa, con il porto di Livorno dove da anni una banchina è riservata già a Usa e Nato. «A rendere possibile il tutto ci sono finanziamenti di varia provenienza e la supervisione dei tecnici comunali - spiega a Liberazione, il portavoce locale dei Cobas, Federico Giusti - sarebbe il caso di chiedere coerenza ai consiglieri e ai partiti che sostennero quella mozione pacifista, sarebbe il caso che le sonnolenti realtà sociali e politiche pisane si attivassero contro la militarizzazione del territorio se non vogliamo che Pisa sia trasformata in zona di guerra. Se non ora quando?». Ma per Marco Filippeschi, il sindaco di Pisa per conto del Pd, all'epoca della mozione deputato diessino, la nascita dell'hub va messa fra le buone notizie: «Per Pisa non può che essere un onore accogliere le strutture che consentiranno all'aeroporto militare di essere il punto di riferimento, logistico e di volo, per le missioni di pace che le nostre forze armate saranno chiamate a svolgere. Senza sottovalutare anche le possibili ed interessanti ricadute occupazionali». Nel commentare la notizia, il sindaco ha voluto sottolineare come «la convivenza della base militare e dello scalo civile, segnate in questi anni dagli ottimi rapporti con il Comune di Pisa, sono garantite e producono effetti come è stato nel caso del progetto per l'allungamento delle piste». Inutile dire che la città non ne sapeva nulla e il consiglio comunale non ha mai discusso dell'hub. Solo nell'ultima seduta prima della pausa estiva s'è parlato delle ripercussioni negative dell'eventuale ampliamento dell'aeroporto di Firenze. Rifondazione comunista ha appreso dell'avanzata ipotesi di militarizzazione di S.Giusto solo dalla stampa. «E ci trova in totale disaccordo l'idea che, mentre si tagliano i servizi essenziali, si trovino soldi per la guerra, per la cementificazione e per l'inquinamento di un aeroporto tutto dentro la città», dice Luca Barbuti, segretario pisano di Rifondazione che fa appello al tessuto imprenditoriale e politico della città di non fare «come la cricca di fronte alle macerie aquilane: non ci si arricchisca sull'economia di guerra». C'è da scommettere che la città reagirà. Le risorse ci sono. Unico nel suo genere, l'ateneo pisano ospita un corso di laurea in Scienze per la pace. E, nel mese di maggio, quando il comune voleva mandare i bambini in gita nella scuola dei parà, c'è stata una fortissima mobilitazione dell'opinione pubblica - prima di tutti insegnanti e genitori - per trasformarla in un flop.

DA "Liberazione" 05/08/2010, pag 5

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Comunicato stampa da
Confederazione Cobas Pisa

Aeroporto militare  e Camp Darby:come ti militarizzo il territorio pisano
L'aeroporto militare di Pisa diventerà un Hub nazionale per le forze armate,"l'unico posto da dove si partirà per le missioni internazionali" . Lo dice alla stampa il portavoce della 46esima Brigata aerea che annuncia, per la primavera 2011, l'inizio dei lavori da terminare entro il 2013.  Ma chi pensa ad un potenziamento solo delle piste si sbaglia. Pisa diventerà una struttura
logistica di primaria grandezza in Europa, un centro militare nevralgico capace di ospitare e equipaggiare, in meno di un mese, fino a 30 mila uomini. Una base militare strutturata per il ruolo offensivo delle truppe italiane all'interno di una politica estera pensata per avventure neo coloniali, per missioni internazionali, per una guerra permanente. A pochi chilometri di distanza poi proseguono i lavori di ampliamento del canale del Navicelli per dotare la base
Usa\Nato di quello sbocco almare richiesto dagli Usa ai Comuni di Pisa e Livorno e alla Regione Toscana. Anni fa il Consiglio Comunale di Pisa votò una mozione per la riconversione di Camp darby, da mesi  sono ormai iniziati i lavori  di ampliamento del Fosso dei Navicelli (a gestire l'area è  la Spa Navicelli , spa pubblica al 100% con le quote azionarie equamente divise tra Comune di Pisa, Provincia di Pisa, Camera
di Commercio di Pisa). L'obiettivo non è solo aumentare la profondità del canale e creare una ampia zona per attività industriali, l'obiettivo rimane quello di allargare il Canale per consentire alla base Militare di Camp darby
il collegamento diretto via acqua con il porto di Livorno dove da anni una banchina è riservata alle attività militari Usa e Nato. A rendere possibile il tutto finanziamenti di varia provenienza e la supervisione dei tecnici comunali. Sarebbe il caso di chiedere coerenza ai consiglieri e ai partiti che sostennero quella mozione pacifista, sarebbe il caso che le sonnolenti realtà sociali e politiche pisane si attivassero contro il military business e la militarizzazione del territorio se non vogliamo che Pisa sia trasformata in zona di guerra. Se non ora quando?

Confederazione Cobas Pisa

lunedì 9 agosto 2010

Effetti Collaterali



Wikileaks rende pubblico un video in cui soldati Usa uccidono deliberatamente 12 civili in Iraq

WikiLeaks, un sito specializzato nella pubblicazione di documenti secretati, ha poche ore fa pubblicato un video segreto (che potete vedere nella home page di PeaceReporter) dell'esercito degli Stati Uniti d'America girato nel 2007 da un elicottero durante una operazione militare nella periferia di Baghdad. L'elicottero ha sparato e ucciso dodici civili tra cui due operatori della agenzia di stampa Reuters. Nell'azione ripresa dallo stesso elicottero, furono feriti due bambini. L'agenzia di stampa aveva provato ad ottenere il materiale video, ma inutilmente. Il video mostra chiaramente che gli operatori della Reuters sono stati uccisi dopo che erano già stati feriti. Nell'azione, anche due bambini erano stati feriti gravemente.
Per approfondimenti, www.collateralmurder.com.
da Peacereporter